(2000/2001)
ODISSEO
Viaggio nel Teatro
Con Franco Cecchetto, Adriano Baccaglini, Alessandro Gasperotto, Cristiano Cattin, Aronne Bonomo, Walter Sabato, Luca Serrani, Salvo Lo Presti, Giorgio Amedei, Claudio Baroncelli, Antonia Bertagnon, Fiorella Tommasini, Barbara Bellini, Veronica Mulotti, Mariangela Dosi, Larissa Cioverchia, Isadora Angelini, Sara Nicoletti, Giovanna Ruth Pegoraro, Angela Speroni, Nicoletta Rapelli, Beatrice Baruffini, Giorgio Casamatti
costumi Genny
musica e regia Massimo Munaro
prima rappresentazione itinerante: Ostia Antica, Scavi Archeologici, 16 agosto 2000 II versione definitiva: Rovigo, ex Chiesa del San Michele, 12 febbraio 2001
(1999)
AMORE E PSICHE
una favola per due spettatori
con Fiorella Tommasini, Antonia Bertagnon, Mariangela Dosi e Franco Cecchetto musica e regia Massimo Munaro
prima rappresentazione: Rovigo, Chiostro degli Olivetani, 17 giugno 1999
(1998)
DIONISO
Tragedia del Teatro
con Fiorella Tommasini, Antonia Bertagnon, Larissa Cioverchia, Martina Monetti, Veronica Mulotti, Barbara Bellini, Roberto Domeneghetti, Adriano Baccaglini, Cristiano Cattin, Massimo Furlano, Alessandro Gasperotto
collaborazione drammaturgica Roberto Domeneghetti
musica e regia Massimo Munaro
prima rappresentazione: Rovigo, Teatro Sociale, 10 maggio 1998
(1997)
EDIPO
Tragedia dei sensi per uno spettatore
con Antonia Bertagnon, Fiorella Tommasini, Roberto Domeneghetti, Barbara Bellini, Roberta Turrini, Barbara Chinaglia, Franco Cecchetto, Tina Turco
collaborazione drammaturgia Roberto Domeneghetti
musica e regia Massimo Munaro
prima rappresentazione: Rovigo, Torre Pighin, 26 dicembre 1996
(1996)
IL GALILEO DELLE API
a M.
con Antonia Bertagnon, Fiorella Tommasini, Luigi Marangoni, Simonetta Rovere, Barbara Chinaglia, Nicola Poli, Marco Farinella
costumi Thierry Parmentier
musica e regia Massimo Munaro
prima rappresentazione: Rovigo, Auditorium della Scuola Media Bonifacio, 13 giugno 1996
dal foglio di sala de il primo Studio su IL GALILEO DELLE API - 1996
Ognuno di noi ha le sue ossessioni. Alcune persone ritornano continuamente sui propri passi. Qualcuno finisce a volte per riscrivere per tutta la vita lo stesso romanzo, o per dipingere lo stesso quadro, o per rifare per tutta la vita lo stesso spettacolo. Noi questo ameremmo evitarlo.
Ma esistono incubi più forti degli altri. Incubi che continuano a persistere anche solo per il fatto che non si è riusciti a trascinarli alla luce del sole. Prove tentate e lasciate incompiute, lasciate per un po' dietro le spalle e che poi si ripropongono con forza alla coscienza come un rebus che si deve decifrare.
Lavoriamo sul Galileo di Bertold Brecht e sul Linguaggio delle Api di Karl Von Frisch dal 1992. Ci affascinava l'idea di coniugare l'esperienza della ricerca scientifica con l'esperienza della ricerca teatrale. A questo tema dedicammo quell'anno un Laboratorio teatrale che si arricchì di contributi di molti artisti esterni (Giorgio Barberio Corsetti, Michele Sambin, Nin Scolari, Bob Marchese, Armando Carrara, Thierry Parmentier). Quell'esperienza ci portò a realizzare uno studio teatrale d'ambiente - Una sola moltitudine, un Video teatrale - La Scatola di Frisch, e uno spettacolo rimasto incompiuto - Galileo. Tornammo su questo tema l'anno scorso con altri due studi - I giardini di Kensington e Il secchio del tempo. Ma è sempre stato come se quel rebus non fossimo riusciti a risolverlo.
Eccoci così a ripresentare lo stesso progetto o r a.
Si tratta di un incubo appunto. Un uomo si è perso. Sappiamo che ha passato la vita a studiare le api. Sappiamo che qualcosa deve essergli accaduto, perché lo vediamo smarrito nel labirinto dei suoi sogni. Possiamo supporre che Galileo sia stato il suo maestro ideale ma nei suoi sogni ci appare deforme e cattivo. Non ci sono accadimenti esterni. Tutto è già avvenuto. Ciò a cui assistiamo è solo il delirio di un soggetto o dei tanti frammenti che lo compongono.
Non si tratta di uno spettacolo brechtiano e nemmeno di uno spettacolo scientifico. Di Brecht è rimasto solo qualche frammento stravolto della prima scena del suo dramma e il ricercatore di cui si racconta la storia certamente non è Karl Von Frisch.
Che cosa hanno in comune la ricerca scientifica e la ricerca teatrale?
Un metodo in grado solo di formulare delle ipotesi senza nessuna certezza della verità.
Che cosa hanno in comune con noi Brecht, Galileo e Von Frisch?
La consapevolezza che ogni sforzo compiuto verso la conoscenza della realtà li allontana dalla realtà a cui si dedicano: poiché la trasforma.
Stasera non vi presenteremo uno spettacolo compiuto - perché stavolta non si tratta di uno Studio ma di uno spettacolo vero e proprio - ma soltanto un lavoro in via di gestazione.
Riusciremo a dargli una conclusione? A sciogliere il rebus?
Il tempo dirà.
(1995)
Studio sul Primo Canto dell'Inferno
con Nicola Poli, Barbara Chinaglia, Sara Piffer, Cristiano Cattin, Antonia Bertagnon, Fiorella Tommasini, Emanuela Rossi, Giulio Baraldi, Benedetta Errigo, Rossella Bergo
costumi Thierry Parmentier
regia Massimo Munaro
prima rappresentazione: Rovigo, Teatro Don Bosco, maggio 1995
(1995)
Faust
interpreti Luigi Marangoni Faust, Cristiano Cattin Mefistofele, Elena Giusti Margherita, Tierry Parmentier Lo Spirito
presenze Fiorella Tommasini, Antonia Bertagnon, Simonetta Rovere, Marco Farinella, Marcello Ferrari
musicisti Domenico Banzola (flauto), Stefano Romani (oboe), Alessandra Targa (arpa), Giorgio Panagin (chitarra), Vittorio Piombo (violoncello), Franco Catalini (contrabbasso), Tiziano Negrello (percussioni), Barbara Fortin (voce)
direttore Marco Berdondini
costumi Thierry Parmentier
luci Francesco Piva
assistenza tecnica Marcello Ferrari e Roberto Domeneghetti
musiche e regia Massimo Munaro
prima rappresentazione:
versione itinerante, Festival di Montone (Teramo), agosto 1995
versione teatrale, Teatro Alcione, Verona, 3 maggio 1996
dal foglio di sala di FAUST per la versione teatrale- 1996
il segreto del cercare è che non si trova
Il progetto di questo spettacolo risale al 1992.
Ci affascinava l'idea di un mito che, quasi come una presenza archetipale, era riuscito ad attraversare (da Marlowe, a Goethe fino a Pessoa) gran parte della tradizione culturale occidentale.
La figura di FAUST, cioé quella di un ricercatore che al termine del suo cammino non riesce a stringere fra le mani nient'altro che il vuoto - un vuoto nulla risponde a un infinito niente - ci sembrava perfetto paradigma della nostra cultura e in qualche misura anche della nostra condizione di teatranti.
Come l'esoterismo di FAUST anche il nostro teatro dovrebbe celare un sapere che invece non possiede: perché appunto il segreto del cercare é che non si trova.
Nella prima versione definitiva di questo spettacolo, che risale a un anno fa, fummo spinti a tentare una riflessione sulle stesse forme, sui linguaggi, e sui sensi che la sapienza teatrale era andata via via elaborando fino ad allora. Quello spettacolo in forma itinerante costringeva gli spettatori a seguire fisicamente il viaggio di FAUST attraverso spostamenti di luogo che corrispondevano ai tre momenti fondanti del mito (il patto col diavolo, la storia d'amore con Margherita, la morte di FAUST) e a tre diversi approcci stilistici. Ci divertimmo ad investire la narrazione di continui paradossi strutturali, al punto che lo sviluppo narrativo andava sempre più dissolvendosi piuttosto che dipanandosi.
In questa versione, per un unico spazio scenico, abbiamo cercato di raggiungere una maggiore coesione strutturale: tutto resta sospeso in una dimensione onirica, tutto, in qualche modo é come già avvenuto. Si tratta perciò di un sogno, in cui, per una volta, allo spettatore é permesso di conoscere e di rivivere le cause che lo hanno generato.
Alla figura di MEFISTOFELE abbiamo contrapposto quella de LO SPIRITO. La loro lotta, che attraversa l'intero spettacolo, la lotta fra l'Angelo e il Diavolo, appare in definitiva come una lotta fra le due parti opposte di FAUST. Non é solo una lotta per l'anima di FAUST é una lotta nella sua anima.
(1994)
I Giardini di Kensington
con Marco Farinella, Franco Cecchetto e Emanuela Rossi
diapositive Roberto Ragazzoni
costumi Thierry Parmentier
musica e regìa Massimo Munaro
prima rappresentazione: Rovigo, Teatro di Casa Serena, 16 dicembre 1994
I GIARDINI DI KENSINGTON e IL SECCHIO DEL TEMPO
dicembre 1994
"I giardini di Kensington" e "Il secchio del Tempo" sviluppano, ma certo non esauriscono, alcuni temi centrali e propri dello spettacolo "Galileo" che realizzammo nel 1992 con la regia di Martino Ferrari.
"I giardini di Kensington", ispirato alla prima parte della favola Peter Pan, tenta la costruzione teatrale, formalmente coerente, di un linguaggio altro rispetto a quello naturalistico che è dettato a imitazione del linguaggio quotidiano. Nel nostro lavoro teatrale abbiamo sempre avuto un grande interesse (da "Frammenti", che è stato il nostro primo lavoro, a "Sogno dentro Sogno", che su questa scommessa era interamente costruito) verso la possibilità di svelare coi meccanismi teatrali la tangibile alterità che il mondo rivela dietro la sua superficie rassicurante. Così nel "Galileo" l'interesse era andato sin dall'inizio alla figura di Von Frish e al suo saggio "Il linguaggio delle Api": nello spettacolo confluiva direttamente questo linguaggio altro (quello delle api) nel groviglio dei corpi che come enigmatici geroglifici venivano via via sedati e compresi da Von Frisch, che in scena vedemmo come ideale continuatore del pensiero Galileiano e quindi identificammo con l'allievo Andrea.
Qui ne "I giardini di Kensington" abbiamo cercato di sviluppare, di insistere attorno a questa idea: i giardini di Kensington, che ospitano la vicenda iniziale di Per Pan, sono il regno del fantastico, e come tale obbediscono a regole coerenti quanto del tutto diverse da quelle che dettano la nostra quotidianità. Era dunque possibile per noi tentare di impostare l'intera struttura drammaturgia di questa storia/non-storia (tale è questa narrazione che infondo non racconta nulla ma, come un preludio, finisce solo col disegnare un ambiente), su alcune semplici regole che fondassero, in qualche modo, un linguaggio coerente ed extraquotidiano.
Siamo partiti volendo dare preminenza, almeno in ambito di costruzione formale del lavoro, a uno dei nostri cinque sensi: l'udito. Abbiamo costruito perciò una colonna sonora in cui far confluire le voci, i suoni, i rumori, gli umori stessi di quel giardino visitato da Peter Pan, e abitato da animali e altri personaggi strani e misteriosi. La colonna sonora è costruita per dare uno sviluppo diacronico e insieme sincronico alla vicenda.
Abbiamo poi pensato di costringere l'azione dei nostri tre attori a un numero molto limitato di movimenti: quasi a voler precisare e definire un vocabolario gestuale. Questi movimenti sono determinati dalle loro reazioni ai primi 5 suoni udibili nella colonna sonora. Si tratta di semplici suoni di animali e insetti, i più appropriati per descrivere l'ambiente dei giardini, facilmente riconoscibili da qualsiasi orecchio: un grillo, una cicala, tre tipi diversi di rane.
Abbiamo dato a ciascun attore la possibilità di reagire in modo personale a questi suoni ma costringendo ognuno di loro ad attenersi solo a quattro possibili reazioni funzionali. Essi potevano costruire i loro movimenti:
- in modo analogico rispetto al tipo di suono incontrato (se il suono era lineare anche il movimento doveva essere lineare, ecc.)
- in modo contrario rispetto al suono incontrato (se il suono era lineare il movimento doveva essere spezzato, ecc.)
- in modo analogico rispetto al significato del suono (al suono di un grillo corrisponde un movimento a imitazione di un grillo, ecc.)
- in modo contrario rispetto al significato del suono (suono di grillo movimento a imitazione di un elefante, ecc.)
Ognuno dei primi 5 suoni presi a modello doveva passare attraverso queste 4 funzioni. In questo modo ogni attore era andato costruendo un alfabeto di 20 movimenti basati su 4 serie di 5 movimenti ciascuno.
L'idea di serie ci sembrava del tutto simile a quella desunta in musica dal gruppo di musicisti che negli anni '50 lavorava a Darmstad (Pierre Boulez, Luigi Nono, Karl Heinze Stöckausen, ecc.), e così in modo analogo abbiamo cercato di trattare la serie estendendola a tutti i parametri di una messinscena teatrale.
La regola conseguente che ci siamo dati è stata perciò, innanzitutto, quella di non poter ripetere nessun gesto se prima non era esaurita tutta la serie di cui faceva parte. Le quattro serie vengono esposte dai tre attori una dopo l'altra, per essere poi ribadite una seconda volta. Ogni attore ripete le quattro serie due volte, ma ognuno segue una successione diversa: 1,2,3,4, il primo attore; 2,4,1,3, il secondo; 3,1,4,2, il terzo. I 20 movimenti diventano così (moltiplicati per i tre attori) 60, e saranno così in tutto lo spettacolo 120.
I 20 movimenti di base vengono adattati dagli attori al suono obbedendo, di volta in volta, alle 4 funzioni scelte (analogico/contrario=rispetto al suono - analogico/contrario=rispetto al senso del suono).
Abbiamo esteso questo parametro seriale anche ad un altro elemento fondamentale delle nostre messinscene teatrali: la luce. Su due diversi proiettori stanno dieci diapositive - saranno 20 in tutto a delimitare e a segnare lo spazio scenico. Anche le 20 diapositive, leggermente variate e adattate all'azione, saranno ribadite una seconda volta, per risultare in tutto 40.
Così anche i costumi di Thierry Parmentier sono costruiti a sviluppare e a sottolineare l'idea di serie: sul rosso, costante cromatica scelta, ecco incedere di volta in volta il bianco e il nero - la differenza nell'uniformità.
Tutto ciò sembrerà forse estremamente complicato, ed è invece forse, fra i tanti possibili, il modo più semplice di organizzare un sistema coerente di segni. Semplice al punto da apparire - ma era lo scopo di questo Studio - forse anche troppo didattico.
Ma la poesia? -si dirà. Non è che con tutto questo incedere logico-matematico si finisca col perdere quella poesia di cui invece dovrebbe sempre nutrirsi un'Opera d'Arte? Naturalmente, fiduciosi del nostro lavoro, rimandiamo il giudizio allo spettatore. Ma dopo tanto sforzo, nessuno ci toglie il sospetto che, senza una chiave d'accesso, senza la conoscenza formale su cui è costruito, questo Studio, con tutta la sua ferrea coerenza resterebbe un oggetto incomprensibile - ancora una volta apparirebbe come un enigmatico geroglifico.
Di questo aspetto del problema si occupa l'altro Studio che presentiamo stasera, "Il secchio del Tempo": cioè del distacco, ormai divenuto inquietante, fra Ricerca Scientifica e d Artistica, da una parte, e fruizione pubblica, dall'altra. E' un problema ampiamente affrontato e denunciato da Brecht nel "Galileo", ma le cui conseguenze, già presenti nello spettacolo che realizzammo due anni fa, allora non ci parvero così ineludibili.
Non è mai stata abbastanza sottolineata la sorprendente analogia fra progresso scientifico e progresso artistico, di come cioè ogni conquista scientifica, costringendo l'uomo a una sempre nuova ridefinizione di sé e del mondo che lo ospita, si specchi nell'arte dando luogo a sempre nuove costruzioni formali.
In musica, ad esempio, la forma Bachiana rispecchia fedelmente la visione di un mondo Tolemaico in cui tutto sembrava gravitare attorno ad un centro - il centro tonale appunto; e la rottura di questo centro, cui giunge l'espressionismo musicale attraverso l'atonalità, è in perfetta sintonia con le tesi, fra l'altro coeve, della Relatività Einsteiniana. La successiva musica seriale, a cui "I giardini di Kensington" come si è detto fa da riferimento, si basa sul principio di struttura fondato in linguistica da De Saussure, in antropologia da Levi-Strauss e in psicologia da Lacan. E la musica aleatoria, così in voga a partire dagli anni '60, non ha forse più di un nesso con la teoria delle probabilità, propria della meccanica quantistica? E ancora, la musica e l'arte minimale non sono vere e proprie estrinsecazioni sonore e grafiche del concetto scientifico di frattale?
Non è certo il luogo per approfondire queste affermazioni, certo un po' provocatorie, ma mi piaceva sottolineare le strane sorti condivise nei secoli da Arte e Scienza. E Arte e Scienza hanno soprattutto condiviso, come si diceva, un cammino che le ha portate progressivamente ad allontanarsi dalle coscienze degli uomini del loro tempo. Un risultato davvero inquietante e sorprendente in un'epoca come la nostra in cui pure l'avanzamento tecnologico ci permette in tempo reale di essere informati su ciò che accade in questo momento dall'altra parte del pianeta. Ma, di fatto, chi di noi potrebbe spiegare, con sufficiente approssimazione, in che cosa consista la meccanica quantistica o che cosa sia un frattale? - Chi conosce il lavoro di un musicista come Gerard Grisey, o di un regista come Thierry Salmon, o di uno scienziato come Schrödinger? Sono concetti e nomi che, in quest'epoca di comunicazione globale, abbiamo faticato a sentir nominare distrattamente qualche volta.
La figura di Galileo, almeno per come ce la riporta Brecht, segna nella Storia delle Scienze, un decisivo punto di svolta: "Nella mia vita di scienziato" egli dice nel celebre finale di quel dramma "ho av)uto una fortuna senza pari: quella di vedere l'astronomia dilagare nelle pubbliche piazze". Abiurando al potere nefasto dell'Inquisizione e della Chiesa Romana dell'epoca commise quello che oggi può rappresentare una sorta di peccato originale. "Se io avessi resistito forse i naturalisti avrebbero potuto sviluppare quello che per i medici è il giuramento di Ippocrate; fare voto solenne di far uso della Scienza solo ad esclusivo vantaggio dell'umanità. Così stando le cose il massimo che possiamo pretendere è questa progenie di gnomi inventivi, pronti a farsi assoldare per qualsiasi scopo".
Ed eccola sfilare qui, questa progenie di gnomi. Ne "Il secchio del Tempo" vediamo una nutrita serie di scienziati, un po' pazzi un po' buffoni un po' stregoni un po' chissà cos'altro, gettarsi ed azzuffarsi a proposito del concetto di Tempo: da Newton, che postula l'esistenza di un Tempo assoluto; a Clasius, che attraverso la funzione di entropia - secondo principio della termodinamica - sancisce il decorso irreversibile del Tempo, finendo per prefigurare la "morte termica" dell'Universo; fino a Schrödinger con la meccanica quantistica, che porta a supporre la compresenza di infiniti Tempi, paralleli e convergenti.
In scena assistiamo così a tre brevi esperimenti scientifici trattati nella maniera teatralmente più semplice, quasi cabarettistica e irriverente, che fa a pugni con le parole enigmatiche e incomprensibili pronunciate dai tre scienziati.
In un mondo sempre più complesso avremmo davvero bisogno, avremmo il dovere di essere semplici, di farci comprendere. E invece,il sapere resta sempre più parcellizzato e specialistico, e in quanto tale accessibile solo agli specialisti. Così l'Arte.
Nelle società moderne il potere è detenuto da chi detiene, come si definisce oggi, il know how, cioè la capacità di applicare la conoscenza, e la conoscenza specialistica è del tutto funzionale a questo sistema.
Ma in un momento come questo, in cui un banditore che pontifica quotidianamente dalle sue tre (sei) reti televisive è diventato capo del governo del nostro Paese, gli intellettuali, oggi più che mai, avrebbero il dovere di scendere dalle loro montagne per tornare "a puntare il telescopio della conoscenza", per usare ancora le parole di Brecht, "contro questi avidi predatori dei frutti della scienza, contro questi aguzzini".
(1994)
Il secchio del tempo
con Cristiano Cattin, Roberto Ragazzoni, Luigi Marangoni e Fiorella Tommasini costumi Thierry Parmentier
regìa Massimo Munaro
prima rappresentazione: Rovigo, Teatro di Casa Serena, 16 dicembre 1994
I GIARDINI DI KENSINGTON e IL SECCHIO DEL TEMPO
dicembre 1994
"I giardini di Kensington" e "Il secchio del Tempo" sviluppano, ma certo non esauriscono, alcuni temi centrali e propri dello spettacolo "Galileo" che realizzammo nel 1992 con la regia di Martino Ferrari.
"I giardini di Kensington", ispirato alla prima parte della favola Peter Pan, tenta la costruzione teatrale, formalmente coerente, di un linguaggio altro rispetto a quello naturalistico che è dettato a imitazione del linguaggio quotidiano. Nel nostro lavoro teatrale abbiamo sempre avuto un grande interesse (da "Frammenti", che è stato il nostro primo lavoro, a "Sogno dentro Sogno", che su questa scommessa era interamente costruito) verso la possibilità di svelare coi meccanismi teatrali la tangibile alterità che il mondo rivela dietro la sua superficie rassicurante. Così nel "Galileo" l'interesse era andato sin dall'inizio alla figura di Von Frish e al suo saggio "Il linguaggio delle Api": nello spettacolo confluiva direttamente questo linguaggio altro (quello delle api) nel groviglio dei corpi che come enigmatici geroglifici venivano via via sedati e compresi da Von Frisch, che in scena vedemmo come ideale continuatore del pensiero Galileiano e quindi identificammo con l'allievo Andrea.
Qui ne "I giardini di Kensington" abbiamo cercato di sviluppare, di insistere attorno a questa idea: i giardini di Kensington, che ospitano la vicenda iniziale di Per Pan, sono il regno del fantastico, e come tale obbediscono a regole coerenti quanto del tutto diverse da quelle che dettano la nostra quotidianità. Era dunque possibile per noi tentare di impostare l'intera struttura drammaturgia di questa storia/non-storia (tale è questa narrazione che infondo non racconta nulla ma, come un preludio, finisce solo col disegnare un ambiente), su alcune semplici regole che fondassero, in qualche modo, un linguaggio coerente ed extraquotidiano.
Siamo partiti volendo dare preminenza, almeno in ambito di costruzione formale del lavoro, a uno dei nostri cinque sensi: l'udito. Abbiamo costruito perciò una colonna sonora in cui far confluire le voci, i suoni, i rumori, gli umori stessi di quel giardino visitato da Peter Pan, e abitato da animali e altri personaggi strani e misteriosi. La colonna sonora è costruita per dare uno sviluppo diacronico e insieme sincronico alla vicenda.
Abbiamo poi pensato di costringere l'azione dei nostri tre attori a un numero molto limitato di movimenti: quasi a voler precisare e definire un vocabolario gestuale. Questi movimenti sono determinati dalle loro reazioni ai primi 5 suoni udibili nella colonna sonora. Si tratta di semplici suoni di animali e insetti, i più appropriati per descrivere l'ambiente dei giardini, facilmente riconoscibili da qualsiasi orecchio: un grillo, una cicala, tre tipi diversi di rane.
Abbiamo dato a ciascun attore la possibilità di reagire in modo personale a questi suoni ma costringendo ognuno di loro ad attenersi solo a quattro possibili reazioni funzionali. Essi potevano costruire i loro movimenti:
- in modo analogico rispetto al tipo di suono incontrato (se il suono era lineare anche il movimento doveva essere lineare, ecc.)
- in modo contrario rispetto al suono incontrato (se il suono era lineare il movimento doveva essere spezzato, ecc.)
- in modo analogico rispetto al significato del suono (al suono di un grillo corrisponde un movimento a imitazione di un grillo, ecc.)
- in modo contrario rispetto al significato del suono (suono di grillo movimento a imitazione di un elefante, ecc.)
Ognuno dei primi 5 suoni presi a modello doveva passare attraverso queste 4 funzioni. In questo modo ogni attore era andato costruendo un alfabeto di 20 movimenti basati su 4 serie di 5 movimenti ciascuno.
L'idea di serie ci sembrava del tutto simile a quella desunta in musica dal gruppo di musicisti che negli anni '50 lavorava a Darmstad (Pierre Boulez, Luigi Nono, Karl Heinze Stöckausen, ecc.), e così in modo analogo abbiamo cercato di trattare la serie estendendola a tutti i parametri di una messinscena teatrale.
La regola conseguente che ci siamo dati è stata perciò, innanzitutto, quella di non poter ripetere nessun gesto se prima non era esaurita tutta la serie di cui faceva parte. Le quattro serie vengono esposte dai tre attori una dopo l'altra, per essere poi ribadite una seconda volta. Ogni attore ripete le quattro serie due volte, ma ognuno segue una successione diversa: 1,2,3,4, il primo attore; 2,4,1,3, il secondo; 3,1,4,2, il terzo. I 20 movimenti diventano così (moltiplicati per i tre attori) 60, e saranno così in tutto lo spettacolo 120.
I 20 movimenti di base vengono adattati dagli attori al suono obbedendo, di volta in volta, alle 4 funzioni scelte (analogico/contrario=rispetto al suono - analogico/contrario=rispetto al senso del suono).
Abbiamo esteso questo parametro seriale anche ad un altro elemento fondamentale delle nostre messinscene teatrali: la luce. Su due diversi proiettori stanno dieci diapositive - saranno 20 in tutto a delimitare e a segnare lo spazio scenico. Anche le 20 diapositive, leggermente variate e adattate all'azione, saranno ribadite una seconda volta, per risultare in tutto 40.
Così anche i costumi di Thierry Parmentier sono costruiti a sviluppare e a sottolineare l'idea di serie: sul rosso, costante cromatica scelta, ecco incedere di volta in volta il bianco e il nero - la differenza nell'uniformità.
Tutto ciò sembrerà forse estremamente complicato, ed è invece forse, fra i tanti possibili, il modo più semplice di organizzare un sistema coerente di segni. Semplice al punto da apparire - ma era lo scopo di questo Studio - forse anche troppo didattico.
Ma la poesia? -si dirà. Non è che con tutto questo incedere logico-matematico si finisca col perdere quella poesia di cui invece dovrebbe sempre nutrirsi un'Opera d'Arte? Naturalmente, fiduciosi del nostro lavoro, rimandiamo il giudizio allo spettatore. Ma dopo tanto sforzo, nessuno ci toglie il sospetto che, senza una chiave d'accesso, senza la conoscenza formale su cui è costruito, questo Studio, con tutta la sua ferrea coerenza resterebbe un oggetto incomprensibile - ancora una volta apparirebbe come un enigmatico geroglifico.
Di questo aspetto del problema si occupa l'altro Studio che presentiamo stasera, "Il secchio del Tempo": cioè del distacco, ormai divenuto inquietante, fra Ricerca Scientifica e d Artistica, da una parte, e fruizione pubblica, dall'altra. E' un problema ampiamente affrontato e denunciato da Brecht nel "Galileo", ma le cui conseguenze, già presenti nello spettacolo che realizzammo due anni fa, allora non ci parvero così ineludibili.
Non è mai stata abbastanza sottolineata la sorprendente analogia fra progresso scientifico e progresso artistico, di come cioè ogni conquista scientifica, costringendo l'uomo a una sempre nuova ridefinizione di sé e del mondo che lo ospita, si specchi nell'arte dando luogo a sempre nuove costruzioni formali.
In musica, ad esempio, la forma Bachiana rispecchia fedelmente la visione di un mondo Tolemaico in cui tutto sembrava gravitare attorno ad un centro - il centro tonale appunto; e la rottura di questo centro, cui giunge l'espressionismo musicale attraverso l'atonalità, è in perfetta sintonia con le tesi, fra l'altro coeve, della Relatività Einsteiniana. La successiva musica seriale, a cui "I giardini di Kensington" come si è detto fa da riferimento, si basa sul principio di struttura fondato in linguistica da De Saussure, in antropologia da Levi-Strauss e in psicologia da Lacan. E la musica aleatoria, così in voga a partire dagli anni '60, non ha forse più di un nesso con la teoria delle probabilità, propria della meccanica quantistica? E ancora, la musica e l'arte minimale non sono vere e proprie estrinsecazioni sonore e grafiche del concetto scientifico di frattale?
Non è certo il luogo per approfondire queste affermazioni, certo un po' provocatorie, ma mi piaceva sottolineare le strane sorti condivise nei secoli da Arte e Scienza. E Arte e Scienza hanno soprattutto condiviso, come si diceva, un cammino che le ha portate progressivamente ad allontanarsi dalle coscienze degli uomini del loro tempo. Un risultato davvero inquietante e sorprendente in un'epoca come la nostra in cui pure l'avanzamento tecnologico ci permette in tempo reale di essere informati su ciò che accade in questo momento dall'altra parte del pianeta. Ma, di fatto, chi di noi potrebbe spiegare, con sufficiente approssimazione, in che cosa consista la meccanica quantistica o che cosa sia un frattale? - Chi conosce il lavoro di un musicista come Gerard Grisey, o di un regista come Thierry Salmon, o di uno scienziato come Schrödinger? Sono concetti e nomi che, in quest'epoca di comunicazione globale, abbiamo faticato a sentir nominare distrattamente qualche volta.
La figura di Galileo, almeno per come ce la riporta Brecht, segna nella Storia delle Scienze, un decisivo punto di svolta: "Nella mia vita di scienziato" egli dice nel celebre finale di quel dramma "ho av)uto una fortuna senza pari: quella di vedere l'astronomia dilagare nelle pubbliche piazze". Abiurando al potere nefasto dell'Inquisizione e della Chiesa Romana dell'epoca commise quello che oggi può rappresentare una sorta di peccato originale. "Se io avessi resistito forse i naturalisti avrebbero potuto sviluppare quello che per i medici è il giuramento di Ippocrate; fare voto solenne di far uso della Scienza solo ad esclusivo vantaggio dell'umanità. Così stando le cose il massimo che possiamo pretendere è questa progenie di gnomi inventivi, pronti a farsi assoldare per qualsiasi scopo".
Ed eccola sfilare qui, questa progenie di gnomi. Ne "Il secchio del Tempo" vediamo una nutrita serie di scienziati, un po' pazzi un po' buffoni un po' stregoni un po' chissà cos'altro, gettarsi ed azzuffarsi a proposito del concetto di Tempo: da Newton, che postula l'esistenza di un Tempo assoluto; a Clasius, che attraverso la funzione di entropia - secondo principio della termodinamica - sancisce il decorso irreversibile del Tempo, finendo per prefigurare la "morte termica" dell'Universo; fino a Schrödinger con la meccanica quantistica, che porta a supporre la compresenza di infiniti Tempi, paralleli e convergenti.
In scena assistiamo così a tre brevi esperimenti scientifici trattati nella maniera teatralmente più semplice, quasi cabarettistica e irriverente, che fa a pugni con le parole enigmatiche e incomprensibili pronunciate dai tre scienziati.
In un mondo sempre più complesso avremmo davvero bisogno, avremmo il dovere di essere semplici, di farci comprendere. E invece,il sapere resta sempre più parcellizzato e specialistico, e in quanto tale accessibile solo agli specialisti. Così l'Arte.
Nelle società moderne il potere è detenuto da chi detiene, come si definisce oggi, il know how, cioè la capacità di applicare la conoscenza, e la conoscenza specialistica è del tutto funzionale a questo sistema.
Ma in un momento come questo, in cui un banditore che pontifica quotidianamente dalle sue tre (sei) reti televisive è diventato capo del governo del nostro Paese, gli intellettuali, oggi più che mai, avrebbero il dovere di scendere dalle loro montagne per tornare "a puntare il telescopio della conoscenza", per usare ancora le parole di Brecht, "contro questi avidi predatori dei frutti della scienza, contro questi aguzzini".
(1994)
Plantus Domine Nostrae
con Federica Bernardinello(Fiorella Tommasini) Maria, Thierry Parmentier Cristo coro Antonia Bertagnon, Marco Farinella, Barbara Fortin, Cristiano Cattin, Anna Verza, Simonetta Rovere, Franco Cecchetto
lementi scenici Marcello Ferrari
costumi Thierry Parmentier
luci Francesco Piva
musica e regìa Massimo Munaro
prima rappresentazione: Rovigo, Chiesa del Duomo, 10 settembre 1994
lo spettacolo è stato ripreso nel 2000