(1994)

Cinque sassi

con Massimo Munaro, Thierry Parmentier, Antonia Bertagnon, Fiorella Tommasini, Marco Farinella, Franco Cecchetto e Nadia Poleti
soprano Halla Margret Arnadottir (Barbara Fortin)
coreografie Thierry Parmentier
luci Francesco Piva e Roberto Lunari
diapositive Roberto Domeneghetti
musica e regia Massimo Munaro

prima rappresentazione: Rovigo, Teatro Don Bosco, marzo 1994

dal libretto di sala di CINQUE SASSI - 1994

Il nostro primo incontro con la poesia di Marco Munaro è avvenuto nel 1992, allorché realizzammo uno studio su L'Urlo, una sezione della raccolta poetica Cinque Sassi.

Si trattava, allora, di una piccola opera da camera per sintetizzatore e voce recitante, a cui si aggiungeva sul piano visivo l'utilizzazione di un danzatore. In quell'occasione cercammo di restituire, con il suono e l'immagine, la violenza criptica e ustionante di un verso apparentemente disarticolato eppure costretto in una rigida intelaiatura formale. In questo spettacolo abbiamo cercato di ricollocare L'Urlo all'interno della più ampia dimensione poetica che lo ospita. Abbiamo così drammaturgicamente, in modo personale, operato una ricucitura di testi poetici quasi a voler raccontare di una catastrofe dell'io che partendo da un'impossibile riconciliazione con la propria infanzia, portasse, attraverso una continua riflessione sulla propria scrittura, ad una nuova ricomposizione. Cinque Sassi nasce dall'incontro poetico della parola con il linguaggio poetico della scena: i movimenti degli attori, le loro azioni, sono offerti agli spettatori come segni da interpretare.

Il TESTO (poetico, teatrale) e l'EVENTO.

Innanzitutto di una voce, di un canto della lingua-realtà, della poesia stessa, insieme gioioso e abissale - spalancante universi. E poi (esiste anche un'intelligenza del corpo) di un gesto muto e onnidicente, grado zero della lingue e origine di ogni possibilità comunicativa-narrativa: "Ma come, non mi vedi? Sono qui" (l'evento dell'essere qui) e "corse, grida, risa: ti ho colpito!" (qui, nella storia). Ma è una storia narrata per "intermittenze del corpo", cioè per lampi di verità del corpo/tempo/memoria, che pur ruotano attorno a due gruppi tematici: da una parte la morte dell'infanzia e dell'adolescenze (L'urlo) e dall'altra l'infanzia e l'adolescenza ritrovate (le falistre) - discesa, comunque sia, nell'Ade, nell'inconscio (da vivi, perché si è rischiato di essere morti).

A ciascun nucleo corrisponde una lingua: o la lingua visionata e deformante "vista" da chi è stato colpito a morte e sta per morire dissanguato, oppure la lingua aerea, fatata e fresca degli affetti familiari, scoccata in "falistre" - fiocchi di neve o faville più che dialettali: materne. Si intenderà meglio a questo punto il significato del titolo Cinque Sassi: reminiscenza di un gioco infantile, ma insieme oracolo ad Apollo/Dioniso sulla propria morte: cinque, come le punte del corpo umano a stella disegnato da Leonardo in un cerchio, cinque come le dita di una mano, come le piaghe da crocefissione, come cinque fratelli.

Marco Munaro

(1994) 

L'insostenibile leggerezza dell'essere

con Cristiano Cattin e Antonia Bertagnon
coro Marcello Ferrari, Francesco Piva, Nadia Poletti, Vilma Sigolo, Roberto Ragazzoni, Marco Farinella, Fiorella Tommasini
musica e regìa Massimo Munaro

prima rappresentazione: Rovigo, Teatro di Casa Serena, gennaio 1994

Ripresa 2007

manifestoTomas e Tereza Mario Previato e Chiara Elisa Rossini
Coro Diana Ferrantini, Natascia Tommasini, Katia Raguso, Alessio Papa, Cinzia Cavallaro, Silvia Cova, Michele Muradore
chitarra elettrica Paolo Finotello
assistenza e cura Fiorella Tommasini
drammaturgia musica e regia Massimo Munaro

Questo lavoro nasce come studio teatrale nel 1994. Il lavoro viene riproposto oggi, a tredici anni dalla sua creazione, per il ventennale della nascita del gruppo (1987).

La storia di Tomas e Tereza, che è la storia di una relazione di coppia raccontata da Milan Kundera nell'omonimo romanzo, è immersa nel flusso della grande Storia: Siamo nella Cecoslavacchia dell'invasione Russa del 1968, e questa vicenda collettiva non solo fa da sfondo, ma nutre e da significato a quella privata. Anche qui - dopo le esperienze de "La città chiusa" e di "Una sola moltitudine" - ci siamo trovati a dover risolvere la dialettica tra una storia individuale e un dramma collettivo.

In questo lavoro abbiamo pensato all'utilizzazione di un Coro, quasi a recuperare la funzione che esso aveva agli albori del teatro: un uditorio multiplo di presenze che circonda i personaggi principali del dramma e da risposta e risonanza ad ogni moto ed esplosione delle loro passioni. Il coro sogna e mormora accovacciato a fianco della statua che parla. E' esso stesso statua. E' possibile fare esplodere la narrazione e ricomporla sotto il flusso guida della poesia? Questa è stata ancora una volta la nostra scommessa.

L'ultimo movimento dell'ultimo quartetto di Beethoven è scritto su due motivi: Muss es sein? (deve essere?) – Es muss sein (deve essere!). Perché il senso delle sue parole fosse del tutto chiaro, Beethoven scrisse in testa all'ultimo movimento le parole: "Der schwer gefasste Entschluss": la risoluzione presa con difficoltà, la grave risoluzione.

La grave risoluzione è unita alla voce del destino (Es muss sein); pesantezza necessità e valore sono tre concetti intimamente legati: solo ciò che è necessario è pesante, solo ciò che pesa ha valore.

L'idea dell'eterno ritorno accomuna Nietzche all'eroe Beethoveniano: la grandezza di un uomo risiede nel fatto che egli porta il suo destino come Atlante portava sulle spalle la volta celeste. All'antitesi di questo pensiero in Parmenide la leggerezza assume un valore positivo. Come per Orazio la fugacità dell'esistenza va colmata fino in fondo con la pienezza del semplice esistere.

Milan Kundera

(1993) 

Faust, frammento primo e secondo

interpreti Luigi Marangoni Faust, Martino Ferrari Mefistofele, Annalisa Verza Margherita,   Thierry Parmentier Lo Spirito
musicisti Silvia Panagin (oboe), Cristina Converso (flauto e percussioni), Raffaella Traniello (arpa e sax), Giorgio Panagin (chitarra), Chiara Converso (violoncello), Tiziano Negrello (contrabbasso), Barbara Fortin (voce)
diretti da Massimo Munaro
scenografie Martino Ferrari
costumi Thierry Parmentier
musica e regia Massimo Munaro

prima rappresentazione: Rovigo, Teatro Duomo, giugno 1993

(1993)

Galileo

con Massimo Munaro, Antonia Bertagnon, Franco Cecchetto, Marco Farinella, Simonetta Rovere,Fiorella Tommasini
collaborazione tecnica Angela Tosatto, Roberto Domeneghetti, Francesca Piva musiche Massimo Munaro
scena e regìa Martino Ferrari

prima rappresentazione: Rovigo, Teatro Don Bosco, 1 giugno 1993

 

dal foglio di sala dello spettacolo GALILEO
giugno 1993

Lo spettacolo GALILEO è liberamente ispirato a Vita di Galileo di Bertold Brecht e al Linguaggio delle Api di Karl von Frish. Il lavoro rappresenta l'ultima galileo.jpgtappa di un laboratorio svoltosi nel 1992 nella Città di Rovigo.

Il laboratorio, condotto dal Teatro del Lemming, ha ospitato stages tenuti da alcune personalità tra le più interessanti del nuovo teatro italiano. In tali incontri, al di là del momento propriamente didattico, è avvenuta la creazione e l'elaborazione di materiali confluiti poi nello spettacolo. GALILEO rappresenta la terza esperienza di spettacolo scaturita dal laboratorio e fa seguito allo studio d'ambiente Una sola Moltitudine e allo studio video La scatola di Frish.galileo2.jpg

I testi che soggiacciono alla rappresentazione - una commedia e un saggio scientifico - risultano estremamente diversi fra loro, ma legati da un unico filo conduttore: il racconto di un'esperienza di ricerca. Ed è appunto il racconto di questa esperienza che sta alla base di questo spettacolo.

In questo allestimento, com'era avvenuto in altri lavori del gruppo il testo è stato fortemente manipolato, ma si conserva alla fine ancora la struttura formale dell'opera di Brecht che ha finito, nonostante tutto, per condizionare profondamente il lavoro. Durante la preparazione dello spettacolo si sono quasi delineate da sé modalità di rappresentazione proprie del teatro brechtiano.

Il senso di riproporre oggi, seppure modificato nella forma, un autore che sembrava in via di rimozione dai palcoscenici e più in generale dalla cultura moderna, può trovare il suo senso galileo3.gifanche negli avvenimenti odierni.

L'emergere di una verità "sporca" da tutti conosciuta ma da tutti ormai considerata convenzione.

Galileo, uomo di cultura ma anche "epicureo" uomo della carne, rinnega il suo sapere di fronte all'autorità che lo minaccia: l'allusione può risultare fin troppo ovvia. Non si vuole comunque proporre un atto di accusa che suonerebbe senza dubbio retorico, anche perché nessuno può realmente chiamarsi fuori da quanto è accaduto, ma semplicemente raccontare la storia di un percorso di ricerca e di un'abiura, abiura, se si vuole, di un mondo culturale che ha ammiccato di fronte ad un sistema presunto immodificabile.

Von Frish, studioso di insetti della prima metà del '900, finisce per impersonare, forse suo malgrado, quanto vi può essere di ideale nella ricerca scientifica o più ingalileo4.gif generale nella ricerca.

Quel processo che avanza in modo apparentemente indipendente dal mondo che lo circonda ma che ne è invece profondamente influenzato e più precisamente orientato. Esso ci racconta di un mondo, altro, complesso e ricco di regole e di linguaggi, inizialmente incomprensibili ma che possono essere via via svelati. Resta comunque, alla fine, l'impossibilità di stabilire un rapporto, un'intesa possibile con quel mondo alieno. Gli uomini in ultima analisi restano confinati in un mondo di uomini.

Oggi 10 gennaio 1610 abolito il cielo

(1993)

Faust, frammento primo

interpreti Luigi Marangoni Faust, Martino Ferrari Mefistofele, Elio Talon Lo Spirito scene Martino Ferrari
musica e regia Massimo Munaro

prima rappresentazione: Rovigo, Rotonda di Casa Serena, 1 gennaio 1993

(1992)

 Una Sola Moltitudine - Studio d'Ambiente

con Cristiano Cattin (Martino Ferrari), Federica Bernardinello, Antonia Bertagnon, Beatrice Maggiolo, Francesco Piva, Franco Cecchetto, Marco Farinella, Marzia Callegarin, Marco Rigobello, Marcello Ferrari, Monia Astolfi, NadiaPoletti, Nicola Quadrelli, Nike Sangiorgio, Paola Buoso, Roberto Ragazzoni, Silvia Toscano, Vilma Sigolo

musica e regìa Massimo Munaro

prima rappresentazione: Rovigo, Villa ex Vescovado, 29 maggio 1992

 

dal foglio di sala di UNA SOLA MOLTITUDINE - 1992

Una piazza di una grande città. Idiomi di lingue sconosciute, migliaia e migliaia di volti di cui non si potrà trattenere l'immagine, colori. Ad un osservatore che contemplasse la scena dall'esterno tutti questi esseri in vita non potrebbero apparire che come una massa confusa. Aliena. Indecifrabile. Così come a noi, umani, appare dall'esterno un formicaio. O un alveare.

Ci si rende conto così che un individuo non può affermare la propria soggettività se non negando quella degli altri. Come parte del tutto egli è contemporaneamente diviso dal tutto. Ciò si sperimenta quotidianamente in una relazione d'amore. Lo slancio all'identificazione ci porta ad avvertire l'altro come parte di noi: io sono te - tu sei me. Ma tutto ciò è destinato a rimanere precario. Ognuna delle due parti affermandosi come individualità nega l'identificazione con l'altra.

Queste due pulsioni opposte sussistono anche all'interno dell'atomo costituente la base di una comunità: l'individuo. Pensare ad un soggetto come perfettamente unitario è illusorio. Tensioni opposte lo lacerano, lo dividono, lo tengono in vita. E d'altronde Io chi sono se non la posta continuamente rimessa in gioco della lotta fra un miliardo di cellule nervose che abitano il mio cranio e il mio corpo che le fa da robot? Io fratto Io. Si può dunque intendere, a tutti i livelli, l'esistenza come una ininterrotta serie di incontri e di separazioni. Riconciliazioni e addii ripetuti all'infinito. La nostalgia di una unità perduta è negata dal desiderio di affermare l'esistenza della propria individualità. Tutto ciò accade con violenza. In un delirio pulsionale. All'interno di questo vulcano possiamo solo intuire quello che ci sta accadendo. Non siamo osservatori esterni, noi viviamo. Così cerchiamo di capire ma ogni nostro sforzo risulta vano.

Cosa giustifica l'abiura di Galileo, la perdita di un amore, lo smarrimento di un'identità? Mille ragioni, ma nessuna che ci permetta di comprendere fino in fondo atti così straordinari. All'interno del linguaggio noi siamo parlati dal linguaggio. Tutto ci appare geroglifico, insensato.

Possiamo solo testimoniare, non spiegare.

Il lavoro è stato ripreso nel 2007 per i ventanni dalla fondazione del Lemming

Questo lavoro nasce come studio d'ambiente nel 1992. Il lavoro viene riproposto oggi, a quindici anni dalla sua creazione, per il ventennale della nascita del gruppo (1987). Per noi all'epoca creare uno "Studio d'ambiente" significava aprirsi a tutte le potenzialità di uno spazio. «Teatro» era qualunque luogo ospitasse il suo evento: e l'evento doveva ricrearsi, appunto, a partire dallo spazio che lo ospitava. Già in questo lavoro si affermava per noi la necessità di rivolgerci direttamente, quasi senza alcuna mediazione, agli spettatori. Drammaturgicamente il lavoro coniuga la ricerca avviata da noi in quegli anni su VITA DI GALILEO di Bertold Brecht e su IL LINGUAGGIO DEGLI API di Karl Von Frisch. In realtà esso finisce per nutrirsi anche della visione poetica di Fernando Pessoa, che già da allora avevamo eletto ad uno dei nostri poeti di riferimento. Alla dimensione logica/narrativa questo lavoro preferisce la suggestione del frammento e dell'accecamento poetico. Quasi ad affermare che c'è, nell'esperienza dell'arte teatrale, una rivendicazione di verità, diversa certo da quella della scienza, ma altrettanto certamente non subordinabile ad essa.Questa linea di pensiero attraversa da sempre la nostra ricerca teatrale.

(1990)

La città chiusa

con Thierry Parmentier, Martino Ferrari, Fiorella Tommasini, Antonia Bertagnon, Roberto Domeneghetti, Nadia Poletti, Simonetta Rovere
colaborazione tecnica Francesco Piva e Angela Tosatto
scenografia Martino Ferrari
musica e regia Massimo Munaro

prima rappresentazione: Rovigo, Teatro Don Bosco, 13 ottobre 1990

dal libretto di sala de LA CITTA' CHIUSA - 1990

Quando un anno fa cominciammo a lavorare attorno al progetto che avrebbe dato vita a questo spettacolo, decidemmo che rispetto ai precedenti questo avrebbe cercato di descrivere e di testimoniare la condizione sociale contemporanea.

 

Si trattava di una scelta non facile naturalmente, oltre che contraria all'andamento del teatro di questi anni votato semmai al disimpegno e apparentemente incapace di parlare dell'oggi.

Per noi poi le cose si complicavano: i nostri strumenti formali erano quelli della poesia, della narrazione per immagini, delle suggestioni evocative, ad esempio, di una musica in rapporto ad un corpo o ad un oggetto in movimento. Niente a che vedere con gli stilemi del Teatro Politico, con cui non avevamo e non abbiamo niente in comune.

Pensando al presente e alla condizione precaria in cui versa il mondo, a dieci anni dalla fine di questo secondo millennio, a noi è venuto immediato pensare ad una Apocalisse. Proprio nel momento in cui di fronte al fallimento dei regimi dell'Est si vanno celebrando con arrogante opulenza i fasti del benessere dell'Occidente, per contrasto può nascere istintivo il desiderio di raccontarne la fine.

Partiti dall'Apocalisse di Giovanni, per analogia abbiamo successivamente pensato ad Artaud ed al suo splendido saggio Il teatro e la peste.

Tentando una nominazione per metafore potremmo dire che oggi il cancro ci divora nel silenzio delle nostre case, si nasconde dietro la maschera della democrazia la cui libertà apparente è basata sull'assoluta mercificazione e sull'azzeramento di ogni tensione.

La peste, in tutta la sua forza dirompente ed evocativa, rappresenterebbe in questo senso la via d'accesso attraverso la quale la malattia si rivela.

E' a questo punto, e sempre per analogia, che siamo giunti a Camus e al suo romanzo La Peste. Nessuno di noi aveva ancora letto questo libro, anche se per la verità un po' tutti noi eravamo cresciuti leggendo e amando gli autori dell'esistenzialismo francese. A questi autore, anzi, la cui scomparsa dal dibattito culturale odierno appare come una specie di lapsus, una preoccupante rimozione, siamo invece convinti si debba tornare per tentare di far ripartire da qui una riflessione sull'oggi e sulla stessa nozione di impegno.

Nato come libera riscrittura teatrale del romanzo, questo spettacolo si è poi ulteriormente trasformato durante la lavorazione in una personale rivisitazione dell'intera opera letteraria di Camus. Albert Camus non ha mai scritto niente che portasse il titolo La città chiusa, ma crediamo ugualmente sia possibile rintracciare all'interno di questo nostro lavoro il senso profondo della sua poetica.

Nello spettacolo coesistono testi di provenienza diversa: oltre che al romanzo La Peste naturalmente (di cui qui si conserva la struttura narrativa), sono presenti testi tratti da Il Rovescio e il Diritto (che è il suo primo saggio giovanile), dal dramma Caligola, dal saggio filosofico Il mito di Sisifo.

Questa commistione di testi era in un certo senso autorizzata dallo stesso Camus. "Troppo spesso" egli scrive ne Il Mito di Sisifo "si considera il lavoro di un creatore come una serie di prove isolate. la creazione unica di un uomo si rafforza nei suoi successivi e molteplici aspetti, che sono le opere. Le une integrano le altre, le correggono e le riafferrano, le contraddicono anche."

Non era possibile per noi dunque, una volta accostatici al suo romanzo e iniziando questo lavoro, sottrarci a questa visione unitaria della sua opera.

Ad Orano, una piccola città banalmente uguale a tante altre, si diffonde improvvisamente una strana febbre. Migliaia di topi vengono a morire all'aperto. L'epidemia si estende e già qualcuno comincia a morire. Gli abitanti cercano di minimizzare, di ignorare gli eventi che invece precipitano. Si dichiara lo stato di peste. La città è chiusa.

Esiliata in questa città e isolata dal resto del mondo, la gente è costretta a fronteggiare una malattia che non può più ignorare. In questa lotta contro la morte, necessaria anche se apparentemente vana, gli uomini scoprono una nuova solidarietà. Ciò che prima veniva sentito intimamente straniero, ora lo si condivide con tutti. Il male che un solo uomo provava diviene peste collettiva. L'evidenza della malattia, pur nella sofferenza e lacerazione, trae l'uomo dalla propria solitudine: mi rivolto dunque siamo.

Ma così com'era comparsa la malattia improvvisamente scompare. Tutto sembra tornare come prima. Il cancro delle abitudini e dell'apparente benessere confina gli uomini all'impotenza e li isola. Ciò che resta, nonostante tutto, è ancora la necessità di conservare il sentimento della rivolta.

La struttura, come si vede, è quella mutuata da La Peste. Ma qui rispetto al romanzo la narrazione procede a salti, per illuminazione e digressioni improvvise. Si possono riconoscere alcuni personaggi del libro: il dottor Rieux, Jean Tarrou, Padre Paneloux, Raimond Rambert, Joseph Grand. Ognuno con la sua storia personale subito sommersa nel flusso collettivo. L'andamento è corale. I sette attori sono tenuti quasi costantemente tutti in scena.

Da questo magma complessivo, oltre a Rieux - che come medico ha una funzione centrale in questa lotta contro la peste - si stagliano in particolare le figure di Rambert e Grand.

Il dramma di Rambert è propriamente quello dell'esilio. Capitato ad Orano per caso è per lui insostenibile sopportare la separazione dalla donna che ama e che ha lasciato a Parigi. Tutti i suoi tentativi di fuga falliscono. E quando finalmente gli si presenterà l'occasione giusta per andarsene, Rambert deciderà di restare perché comprende che questa storia riguarda tutti, e lui non vi si può sottrarre. Lottando nelle squadre sanitarie di volontari egli cercherà di guadagnarsi la libertà.

Joseph Grand, così come lo indica Camus, è forse lo strano buffo eroe di questa storia. Tutte le sue energie sono rivolte a scrivere un romanzo, di cui continuamente non fa che riaggiustare e riscrivere la frase iniziale. Non trova le parole giuste. Ma è tutto proteso in questo sforzo che appare superiore alle sue capacità. Finendo per ammalarsi chiederà a Rieux di bruciare tutti i suoi fogli. Ma non morirà. Una volta guarito, è l'annuncio che la peste sta esaurendo la sua stretta, Grand tornerà alla sua lotta con le parole. Tornerà al suo impossibile romanzo.

Grand e Rambert sono in effetti gli unici due personaggi evidentemente riconoscibili nel corso dell'intero spettacolo. Gli altri, viceversa, sono interpretati di volta in volta dai vari attori, che nell'ambito dell'allestimento assumono così svariate parti.

Al livello propriamente narrativo, in ogni caso, si sovrappone di continuo e spesso prende il sopravvento un livello più allusivo, costituito dal linguaggio astratto dei corpi, spesso in relazione con le suggestioni date dalla musica, o in interazione con gli elementi scenici.

Questi due livelli (il livello narrativo-naturalista e l'astratto-onirico) sono appunto sovrapposti, confusi insieme, e fondano la natura di uno spettacolo che si offre come libera riscrittura. Riscrittura: cioè re-invenzione. Il passaggio dal codice letterario del romanzo, e delle opere di Camus in genere, a quello specificatamente teatrale dello spettacolo, è avvenuto tramite la rielaborazione e la trasformazione del materiale da parte degli attori. Questa reinvenzione è stata ottenuta sfruttando tutti i mezzi teatrali che erano a nostra disposizione.

(1988)

Sogno dentro Sogno

interpreti Massimo Munaro, Martino Ferrari, Gerardo Gasparetto, Fiorella Tommasini
tecnici Carlo Cavriani, Enrico Bascarin, Francesco Piva
musica Massimo Munaro
scene e regia Martino Ferrari
prima rappresentazione: Rovigo, Teatro Don Bosco, 10 novembre 1988

dal foglio di sala di SOGNO DENTRO SOGNO
novembre 1988

Una nuova presenza giunge in un mondo estraneo e questo mondo comincia ad animarsi, a muoversi, attorno al nuovo venuto. Inizialmente le azioni sembrano confuse, caotiche, come possono sembrare confuse, ad un osservatore che non ne conosce le regole,le mosse di un gioco.

A tratti e in diversi momenti gli avvenimenti sembrano assumere una direzione precisa, prende corpo "la realtà" o un'illusione di essa. Jan, il protagonista, si trova a vivere una serie di situazioni diverse, ognuna delle quali offre una spiegazione di ciò che è avvenuto fino a quel momento.

"Aveva battuto la testa e perso la memoria", "aveva bevuto e sognava di aver perso la memoria", "era pazzo e il resto erano sue allucinazioni", ma nessuna di queste verità trova conferma.

Sogno dentro Sogno racconta una storia di una perdita, perdita di identità e perdita in un meccanismo sempre più complesso, nel quale ci si trova costretti molto prima di averne intuito la logica. Il meccanismo costringe Jan a partecipare a situazioni che egli non capisce e di cui è spesso la vittima, la mancante conoscenza di sé gli impedisce di non accettare tutto ciò.

Le emozioni che animano lo spettacolo possono appartenere al vissuto di chiunque: improvvisamente ciò che è conosciuto e familiare si allontana, diventa estraneo, minaccioso, gli elementi del reale si ricombinano in qualcosa di immaginario mantenendo però i contorni precisi e amplificandone la freddezza.

Il percorso è analogo a quello che si ritrova nella xilografia "Sogno" di Maurits Cornelis Escher, qui riportata, e alla quale si fa riferimento in alcuni momenti dello spettacolo, raccontandone in un certo senso la storia.

I testi recitati sono per lo più di Georg Büchner e Fernando Pessoa, si conservano alcuni frammenti di dialogo del romanzo "Il lungo Sonno" di John Hill, da cui è partita la costruzione dello spettacolo e di cui rimangono alcuni elementi della struttura narrativa.

 

 

(1987)

FRAMMENTI

attori Massimo Munaro, Fiorella Tommasini, Gerardo Gasparetto, Bianca Tonello presenze Martino Ferrari e Paola Nalin e Anna Osti (per la prima versione) e Eugenia Degan (per la II versione)
scenografia Martino Ferrari
musiche Massimo Munaro
costumi Barbara Natile
direttore di scena Enrico Bascarin
tecnici Francesco Piva e (per la II versione) Annalisa Bedendo
regia Massimo Munaro e Martino Ferrari

prima rappresentazione: Rovigo, Teatro Don Bosco, 7 giugno 1987
II° versione dal 24 giugno 1988, Arena,   Montagnana (PD)

Teatro del Lemming
dal foglio di sala di FRAMMENTI
giugno 1987

In FRAMMENTI si possono rilevare tre momenti che, pure in qualche modo divisi, vanno a fluire l'uno nell'altro.

La prima parte è caratterizzata esclusivamente dalla danza che visualizza (dopo una simbolica esplosione-nascita che sancisce la separazione delle cose dalla loro originaria unità) l'evolversi e l'intrecciarsi di tre primigenie emozioni:
il desiderio dell'unità perduta (l'armonia);
l'affermazione dell'individuo sull'individuo (il potere);
e l'erotismo, come risultato e sintesi delle due emozioni precedenti.

La seconda parte dello spettacolo è vissuta, almeno inizialmente, in maniera prepoderante dagli attori, che sono quattro: due uomini e due donne.

Essi incarnano personaggi reali e le scene che andranno a rappresentare, sul filo di quelle tre emozioni introdotte precedentemente dalla danza, si muovono a catturare momenti diversi, brandelli di vita, come se sul luogo della scena si aprissero improvvisamente squarci di spazio e di tempo e si potesse assistere al girotondo straniato dell'esistenza umana.

Questi sei brevi frammenti di scene sono liberamente tratti da testi fra i più significativi della produzione artistica contemporanea e sono stati scelti e rielaborati con l'unico criterio della necessità. Qui infatti viene a crearsi, al di là dello sviluppo narrativo di ogni singola scena, una sorta di unica macrostoria: ogni attore darà vita a tre personaggi, con caratteristiche e vicende molto diverse, mantenendo però una propria individualità, una sola essenza di cui egli sarà di volta in volta voce e volto.

Tale immagine sarà invecchiata dallo scorrere dello spettacolo.

Il tempo, elemento che caratterizza la nostra realtà, scandito ogni volta dal procedere delle scene, appare così irreversibile.

Parallelamente a tutto questo la presenza della danza, sempre più crescente, visualizza al contrario un mondo che rimane assolutamente incorruttibile rispetto al tempo, ma che pure in qualche modo esiste. I tre danzatori quindi saranno materializzazione delle ansie, dei desideri, degli inconfessati pensieri che di volta in volta i vari personaggi si troveranno a vivere. Si frappongono dunque come altro livello, di per sé innominabile.

Questa presenza diventa infine luogo d'azione e indagine dell'ultima parte dello spettacolo: si da voce alla danza e attraverso ciò si giunge alla percezione totale di questo mondo, diverso, altro da noi. Mondo ignoto, probabilmente, imperscrutabile ma anche finalmente tangibile, da cui si celano e paiono potersi dipartire altri infiniti mondi. Altri Frammenti.

Teatro Studio

Il Teatro Studio si trova a Rovigo, in viale Oroboni 14. Si tratta di un immobile di proprietà del comune. Dal 2008 il teatro è gestito in convenzione dal Teatro del Lemming.

La sala teatrale ha una gradinata e un palco a terra, tre americane e un’ inquadratura alla tedesca. I posti a sedere per il pubblico sono 200. L’edificio ospita inoltre gli uffici della  compagnia ed è dotato di una piccola sala di registrazione.

Affitto della sala
Scheda Tecnica

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Lemming

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