AMLETO

Con: Fiorella Tommasini, Chiara Elisa Rossini, Diana Ferrantini, Mario Previato, Alessio Papa, Giovanni Refosco, Boris Ventura, Katia Raguso
Musica e regia: Massimo Munaro
Elementi scenici: Luigi Troncon

Spettacolo vincitore  del Silver Snow Flake al Sarajevo Winter Festival 2013

 

“Il tempo è fuori di sesto. O quale dannata sorte essere nato per riconnetterlo!...”

Amleto è l’opera che, più di ogni altra, inaugura la cultura moderna; anzi, per molti aspetti ne costituisce il mito fondante. Come personaggio mitico, Amleto dà vita ad un personaggio scisso, dilaniato, smarrito.
Amleto è scisso fra fede umanista e scetticismo conoscitivo, fra segno e simulacro. È dilaniato, sul piano psicologico, dalla contesa fra il nome del padre e richiamo affettivo della madre, fra passato aureo e presente decadente, fra eros e rifiuto del corpo, fra ragione e follia, fra follia recitata e follia sperimentata direttamente.
Amleto è condannato a vivere in un mondo rovesciato. Ogni valore è stato sostituito da una copia rivoltante. Ogni cosa dotata di senso è stata ridotta a una recita sinistra. Il mondo di Amleto, come il nostro, non solo cospira a desacralizzare tutto ma rende ciò che consideravamo sacro una farsa sempre più abbietta.
In questo mondo paradossale la strategia di Amleto è quella così di giocare a rovesciare ogni paradosso.
In Amleto ritroviamo la nostra solitudine, ancor prima che di spettatori, di cittadini. Se è vero che in una democrazia la regalità dovrebbe appartenere a ciascun cittadino, allora davvero ci sentiamo tutti soli e impotenti come questo triste principe che non conta nulla.
Se Amleto è Principe lo è, come noi, soltanto in quanto erede. Erede di una potenza nobile che ora appare irrimediabilmente corrotta: “C’è del marcio in Danimarca”. Erede di un padre che ha il suo stesso nome, e il cui destino egli è chiamato a compiere. Perché il destino dei figli, come per Amleto, è quello di risolvere quello che i padri hanno lasciato come irrisolto.
La dimensione labirintica del testo, che disarticola ogni linearità narrativa, ci fa sprofondare in un viaggio interiore che è al contempo anche un viaggio nella natura stessa del fenomeno teatrale.
Il nostro gioco polistilistico, che inerisce ciascuna opera della trilogia e le tre declinazioni nel loro insieme, è infatti un omaggio agli infiniti piani e alle inesauribili risonanze che l’Amleto continua ad offrire.
Nella sua natura scopertamente meta teatrale l’Amleto shakespeariano pone al centro il problema del teatro. Un teatro inteso come spettacolo, cioè simulacro, inganno, falsità, ipocrisia. Da questo punto di vista lo “spettacolo” ha ormai completamente invaso, insieme al regno di Danimarca, alla sua corte e ai suoi cortigiani, l’intero nostro mondo contemporaneo: qui la realtà si afferma come tale solo in quanto perpetua finzione.
A questa spettacolarità diffusa Amleto oppone un teatro che sappia smascherare l’inganno, che sappia diventare uno strumento in grado di prendere in trappola la coscienza dello spettatore.
Lo spazio del teatro diventa così lo spazio perturbante in cui i morti tornano a tormentare i vivi e in cui i vivi possono fare pace con essi.
L’ingranaggio di misfatti, di cui soltanto alcuni sono visibili, fa di Amleto quella macchina infernale in cui la lucidità dello spettatore esce turbata come quella di Amleto.

 

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