spettacoli

ATTORNO A TROIA_TROIANE - uno studio

con gli allievi del Corso di Alta Formazione I CINQUE SENSI DELL’ATTORE 2023/2024  
Veronica Di Bussolo, Giovanni Cataldi, Marta Plescia, Nicole Santamaria, Doralma Palestra, Maddalena Dal Maso, Camilla Ferrara, Mariasole Acquaviva, Carlotta Zampieri, Lucienne Perreca, Simone Spes, Marina Carluccio, Katia Raguso, Silvia Massicci, Elena Fioretti, Francesca Marzotto, Marina Aspidistria

assistenza e cura Fiorella Tommasini 
drammaturgia musica e regia Massimo Munaro

una produzione Teatro del Lemming 2024

 

Questo lavoro si costituisce come la seconda parte di un ciclo denominato Attorno a Troia che, dall’Iliade alle Troiane all’Eneide, intende indagare il tema della distruzione di una civiltà, dello smarrimento e dell’esilio.
Attraverso questo ritorno alle radici della nostra cultura vogliamo interrogarci sulla possibilità della conservazione di una identità culturale, la nostra, della sua trasformazione e di una sua possibile rifondazione.
Il periodo storico che stiamo vivendo ci fa sentire come Achei lanciati alla distruzione di città e contemporaneamente come Troiani alla deriva. Il nostro volto sempre più assume su di sé il volto del conquistatore insieme a quello dello sconfitto. Giochiamo entrambi i ruoli alternativamente nella ruota della storia, oggi però sembrano darsi contemporaneamente. Siamo i distruttori del pianeta e insieme, proprio per questo, attraverso i cambiamenti climatici, le guerre e le pandemie, le vittime di questa distruzione. E nella terribile condizione di migranti sta insieme l’origine e forse il destino della nostra civiltà.
Da un punto di vista teatrale, con questo ciclo, intendiamo continuare a sviluppare una sperimentazione attorno al mito troiano e ai nuclei strutturali del linguaggio scenico: dalla drammaturgia, intesa come scrittura scenica, all’invenzione di uno spazio in cui lo spettatore sperimenti nuove condizioni del proprio stare

Alla fine della Seconda guerra mondiale abbiamo tutti sperato che la guerra potesse diventare un tabù per la nostra civiltà. La creazione di organismi sovranazionali come l’Organizzazione delle Nazioni Unite e la stessa nascita della Comunità Europea, sembravano indicare la raggiunta consapevolezza collettiva che la terra è una sola e una sola l’umanità che la popola. A tutt’oggi anche questa sembra una delle tante utopie crollate nella polvere di fronte al risorgere dei nazionalismi, mentre la parola guerra e persino il possibile uso di armi atomiche non suscita più, come un tempo, un immediato e naturale terrore. Persino il dirsi pacifisti sembra condannato e liquidato con sdegno, con buona pace di Omero che fece del nemico Ettore l’eroe più valoroso del suo grande poema, o di Euripide che delle donne sconfitte e rese schiave dai Greci fece delle immortali eroine.
Alla metà del secolo scorso la dichiarazione universale dei diritti umani, nel solco dei proclami della Rivoluzione Francese, sanciva un confine che pareva poter separare una volta per tutte l’umano dalle barbarie. Ed invece ecco che le barbarie continuano a proliferare tutt’intorno a noi. Libertà - Uguaglianza - Fraternità, sono solo parole che stridono e che fanno a pugni con la realtà del mondo, anche di quella parte governata dalla nostra civiltà occidentale.

Dopo un primo Studio su ILIO, presentato lo scorso anno, questo lavoro rimette al centro, come è proprio della nostra poetica, la relazione diretta e prossemica con lo spettatore. Il lavoro inizia laddove si concludeva il precedente – le donne troiane, come in Euripide le uniche superstite del massacro, stanno per salire sulle navi dei vincitori Achei, saranno trascinate come schiave lontano dalla patria. La felicità è perduta, resta solo tra le macerie il suo struggente e amaro ricordo. Le mani nel vuoto stringono solo le mani di altre sventurate compagne.

METAMORFOSI
NEL LABIRINTO DELLA MEMORIA

prima nazionale dal 15 al 25 settembre 2022

con Alessio Papa, Diana Ferrantini, Fiorella Tommasini, Katia Raguso, Marina Carluccio, Silvia Massicci, Massimo Munaro
frammenti poetici da Publio Ovidio Nasone, Bino Rebellato, Nina Nasilli, Massimo Munaro, Rainer Maria Rilke, Dante Alighieri, Alda Merini, Marco Munaro
drammaturgia, musica e regia Massimo Munaro

 

A compimento di un processo di ricerca durato diversi anni avremmo dovuto debuttare con questo lavoro nel giugno del 2020. Allesplodere dellemergenza sanitaria però abbiamo subito compreso che il debutto sarebbe stato impossibile dato che, in linea con la nostra poetica, questo lavoro prevede una relazione con lo spettatore diretta, prossemica e sensoriale. Abbiamo così deciso di presentare in questi anni una reinvenzione della prima parte, DI FORME MUTATE, adatta e rispettosa delle regole anti Covid. Ora che finalmente una stagione più favorevole è arrivata, è il momento per noi di realizzare il progetto per come lo avevamo pensato.

NEL LABIRINTO DELLA MEMORIA, ispirato alle Metamorfosi di Ovidio, conduce ogni partecipante allinterno di un percorso labirintico, che è insieme anche unimmersione radicale, intima e personale nello spazio del rito, del mito e del sogno.

Lo spettacolo prevede laccesso di soli cinque spettatori a replica.Sono previste più repliche al giorno.

 

HANNO SCRITTO

M. PESCE | RUMOR(S)CENA: MITI E LABIRINTI

R. FRANCABANDERA | PANEACQUACULTURE.NET: IL LEMMING COMPLETA IL VIAGGIO NEL LABIRINTO DELLA MEMORIA, RIPERCORRENDO 35 ANNI DI STORIA ARTISTICA

S. CHINZARI | SAPEREAMBIENTE: METAMORFOSI. NEL LABIRINTO DELLA MEMORIA CON IL TEATRO DEL LEMMING

F. ACQUAVIVA | SIPARIO.IT: METAMORFOSI - NEL LABIRINTO DELLA MEMORIA

ANTE LUCEM

scrittura scenica del Teatro del Lemming
su “Sette romanze su poesie di Aleksandr Blok, op.127“ di Dmitrij  Šostakovič

con  Alessio Papa, Katia Raguso, Marina Carluccio, Diana Ferrantini, Silvia Massicci
soprano Cristina Baggio, violino Giacomo Rizzato, violoncello Edoardo Francescon, pianoforte Andrea Mariani
costumi Thierry Parmentier
scrittura scenica e regia Massimo Munaro

una coproduzione  Teatro Sociale di Rovigo / Teatro del Lemming 2021

 

ANTE LUCEM (Prima dell’Alba) è un’Opera da camera che nasce attorno alle Sette romanze su poesie di Aleksandr Blok op. 127 di Dmitrij Šostakovič (con un incipit tratto da un altro capolavoro del compositore russo, il Trio n. 2 op. 67). Per quanto si tratti di una partitura scritta per soprano e un piccolo ensemble strumentale, essa si presta particolarmente ad una rilettura teatrale, come per altro accade a diverse composizioni dell'ultimo Šostakovič (le Sei poesie di Marina Cvetaeva, la suite su versi di Michelangelo, la Sinfonia n.14, ecc.).
Il compositore scrisse queste romanze alla fine degli anni Sessanta da un letto d'ospedale, in una sorta di forzata quarantena, traendo sollievo e ispirazione da alcune poesie giovanili di Aleksandr Blok.
A noi è sembrato interessante associare alla partitura musicale quella coreografica affidata a tre attori associati ciascuno ai tre diversi strumenti, alla voce di soprano i versi poetici recitati da un attore, e su tutti la presenza, quasi immateriale e sospesa, di un angelo vestito di rosso. La nostra scrittura scenica sovrappone così alla musica il linguaggio articolato del teatro: la fisicità dei corpi, la parola poetica, il linguaggio simbolico delle immagini.
È notte e siamo come in attesa di una rivelazione. Domina un’atmosfera da sogno, una diffusa trama nebbiosa. Si aprono squarci su scenari misteriosi ed evanescenti, pervasi di malinconia e di enigmi. Uno spazio intimo ed evocativo, tanto più attuale in quest'epoca di pandemia: un canto gettato nell'oscurità della notte in attesa della liberazione di una nuova alba.

 

 

METAMORFOSI di forme mutate

con Alessio Papa, Diana Ferrantini, Fiorella Tommasini, Katia Raguso, Marina Carluccio, Massimo Munaro
frammenti poetici da Publio Ovidio Nasone, Bino Rebellato, Nina Nasilli, Massimo Munaro
drammaturgia, musica e regia Massimo Munaro

una produzione Teatro del Lemming 2020

 

A compimento di un lavoro durato tre anni avremmo dovuto debuttare con METAMORFOSI - NEL LABIRINTO DELLA MEMORIA nel giugno 2020. Dopo diversi Studi preparatori lo spettacolo aveva trovato la sua forma definitiva in un percorso labirintico dedicato a un piccolo gruppo di spettatori, sette a replica. La relazione prossemica e sensoriale con lo spettatore era tale che all’esplodere dell’emergenza sanitaria abbiamo subito compreso che sarebbe stato impossibile realizzare lo spettacolo per come era stato concepito. Abbiamo così deciso di rimandare il lavoro alla prossima stagione.
Le regole per la riapertura dei teatri sono piuttosto gravose. Esse stabiliscono che in scena gli attori, seppure senza mascherina, devono mantenere una distanza fra loro di un metro e dallo spettatore di due metri. E gli spettatori, fra loro, almeno di un metro. Condizioni che rendono apparentemente già difficile praticare un teatro che non sia un monologo recitato con pubblico frontale, figurarsi un teatro come il nostro basato sulla relazione ravvicinata e sensoriale con lo spettatore.
Poiché però siamo rifuggiti, fin dall’inizio, dalle piattaforme digitali credendo che la natura del teatro sia in “presenza”, non ci era possibile sottrarci alla sfida. Tanto più che siamo convinti che proprio in quest’epoca di “distanziazione sociale” il teatro e la relazione autentica e viva fra attore e spettatore costituisce un pharmakon oggi più che mai necessario.
Abbiamo così accolto le limitazioni indotte dall’emergenza sanitaria Covid-19, senza per questo rinunciare alla specifica poetica sensoriale della Compagnia denominata “Teatro dello spettatore”.

 
DI FORME MUTATE, liberamente ispirato alle Metamorfosi di Ovidio, propone per ogni partecipante un'immersione radicale, intima e personale nello spazio del rito, del mito e del ricordo. L'accesso è riservato ad un gruppo di soli cinque spettatori a replica. Sono previste un massimo di quattro repliche giornaliere.

Qui un estratto della rassegna stampa

 

 

WS TEMPEST

con Chiara Elisa Rossini, Diana Ferrantini, Alessio Papa, Boris Ventura, Marina Carluccio, Katia Raguso, Alessandro Sanmartin
elementi scenici Luigi Troncon
drammaturgia, musica e regia Massimo Munaro

una produzione Teatro del Lemming 2016

A teatro attore e spettatore
provano e riprovano l'incontro con la catastrofe: la morte.
Si abituano, si esercitano a pensarla.
Siamo a teatro è tutto finto. Siamo a teatro è tutto vero.

 

Con questo lavoro completiamo un ciclo di spettacoli Shakespeariani, denominato Trilogia dell'acqua, iniziato con Amleto e proseguito con Giulietta e Romeo - lettere dal mondo liquido.
Questi lavori propongono una riflessione sul conflitto, eternamente attuale, fra individuo e potere. Così come il Principe di Danimarca non trova gli strumenti per opporsi alla corruzione e al marciume della Corte, ecco che nella tragedia dei due giovani innamorati è il contesto sociale ad impedire il loro amore e a condurli alla morte. Infine nella Tempesta, Prospero, ingiustamente spodestato e costretto all'esilio, realizza la sua rivincita che non conduce alla vendetta ma, per una volta, alla riconciliazione e al perdono. Il perpetuarsi della violenza sembra così finalmente avere fine.
Rispetto ai tre capolavori Shakespeariani, questi spettacoli non sono tanto fedeli alla parola dei testi, da cui pensiamo il teatro debba affrancarsi, quanto ai nuclei archetipici che da essi riverberano in modo ancora ustionante.
In particolare abbiamo visto nella TEMPESTA il racconto di un naufragio che avviene, prima di tutto, nella mente del protagonista. E’ come se lo stesso Shakespeare, nella figura di Prospero, dal fondo del mare, rievocasse come in un delirio, gli infiniti personaggi delle sue opere: Amleto, Giulietta, Macbeth, Lear, Riccardo, Bruto tornano a visitarlo. Queste figure rappresentano allo stesso tempo anche frammenti, parti di un'identità composita che è quella del poeta, che è quella di tutti. Il naufragio nella memoria di Prospero/WS è anche un naufragio nella nostra mente.
Gli spettacoli di questa trilogia sono inoltre, ciascuno a suo modo, riflessioni metateatrali. Sviluppano cioè tre possibili ricerche intorno al senso e al modo di fare teatro oggi. A che cosa serve il teatro? E’ un semplice spazio di intrattenimento o può ancora essere uno strumento efficace per prendere in trappola la coscienza del re? Questi lavori invitano a prendere parte, a schierarsi. Perché il teatro può rappresentare ancora un'esperienza radicale, fondarsi, come accade in WS Tempest, su una nuova nozione di spazio, utilizzando tutti i piani possibili e tutti i gradi della prospettiva. Il teatro, inoltre, può tornare a pensare allo spettatore come parte costitutiva della sua drammaturgia: qui gli spettatori, come già in Shakespeare, sono coautori del dramma. Lo sono per la loro presenza viva ed attiva, lo sono perché sta a loro ritessere il logos attraverso il filo della propria esperienza.
Se l'essenza di un romanzo è quella di raccontare una storia, io penso debba appartenere al teatro una diversa vocazione, che è quella di illuminarci e di sorprenderci con le immagini, di perturbarci coi suoni e con le parole, con visioni ed enigmi. Il teatro sotto il segno di Dioniso, da cui sorge anche il teatro shakespeariano, fa infatti appello a delle forze oscure, primigenie, inconsce, notturne, che non si comprendono con la logica diurna, e che ci chiedono di abbandonarci alle emozioni, di lasciarci travolgere dalla tempesta di quel mondo onirico, che non capiamo, ma da cui siamo sorti e da cui, come fantasmi del teatro, siamo tutti, come Prospero, destinati a tornare.


Qui la rassegna stampa

CANTAMI ORFEO

con Chiara Elisa Rossini e Massimo Munaro
assistenza tecnica Alessio Papa
elementi scenici costruiti da Luigi Troncon
musiche e regia Massimo Munaro

una produzione Teatro del Lemming 2015

e se il mondo ti avrà dimenticato
dì alla terra immobile: io scorro,
e all'acqua rapida ripeti: io sono.
R. M. Rilke

Questo lavoro da una parte continua una ricerca, avviata con Musiche del Tempo, sulla capacità del suono di costituirsi come stanza della memoria, dall'altra si pone come primo movimento di un progetto che il Lemming ha intrapreso attorno al mito di Orfeo ed alle Metamorfosi di Ovidio. Dopo una serie di lavori rivolti ad una comunità di spettatori, che non prevedevano più una limitazione al numero di partecipanti, la Compagnia torna così a sperimentare attorno ad una drammaturgia sul mito dedicata al singolo e/o ad un piccolo gruppo di spettatori.

Il lavoro è rivolto, infatti, ad un massimo di venti spettatori a replica, invitati ad adagiarsi su un grande materasso/altare bianco: come a suggerire uno sprofondamento orfico nel regno dell'inconscio e della morte. La musica, proveniente da ogni lato della sala, avvolge la percezione di ogni singolo partecipante. La visione, per una volta, procede invece dal basso verso l'altro, ed è continuamente cangiante come in un infinito riflesso di specchi.

Nei lavori del Lemming, come sempre, non si tratta semplicemente di assistere ad uno spettacolo, quanto piuttosto di esserne completamente immersi e di vivere così una piccola esperienza. C'è qualcosa di profondamente intimo e spiazzante in questo sprofondamento, nella simmetrica fragilità che si realizza fra noi. Rispetto a Musiche del tempo gli spettatori, piuttosto che sprofondare completamente nella suggestione onirica del rito, sono invitati a prenderne parte in qualche modo più consapevolmente. Il racconto di Ovidio si materializza davanti a noi continuamente interpuntato da altri frammenti poetici che ci aprono ad un immaginario più personale e profondo. E' come se invitassimo lo spettatore a compiere, come Orfeo, una sua personale catabasi, una discesa nel mondo infero che è anche, inevitabilmente, un viaggio nella memoria.

Orfeo vuole ritrovare la sua amata morta: Euridice. E la visione si sdoppia. L'amore perduto di Orfeo diventa così il desiderio che non siamo stati in grado di ascoltare, la donna dimenticata, l'amico scomparso, i sogni che non abbiamo saputo realizzare. Come Orfeo attraverso il mezzo dell’arte, del componimento poetico e musicale, ottiene dagli dèi la grazia che gli consente di intraprendere il viaggio nell’Aldilà, così per noi si apre un viaggio, impossibile, nella terra degli assenti, un viaggio a ritroso nella memoria, nei frammenti di ricordi perduti. Perché, come ricordava Borges, "noi siamo la nostra memoria, siamo questo chimerico museo di forme incostanti, questo mucchio di specchi infranti".

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NEKYIA - viaggio per mare di notte
parte I - INFERNO

con Alessio Papa, Diana Ferrantini, Chiara Elisa Rossini, Fiorella Tommasini, Mario Previato
musiche e regia Massimo Munaro

a Roberto Domeneghetti

 

Questo lavoro costituisce la prima parte di NEKYIA, che in greco significa viaggio per mare di notte o discesa agli inferi. Il ciclo suggerisce la possibilità di un ripensamento radicale dei tre regni che la nostra cultura occidentale designa come i regni dell’oltre-mondo: Inferno – Purgatorio – Paradiso rappresentano anche oggi, infatti, innanzi tutto un patrimonio comune e insostituibile del nostro universo simbolico. Il ciclo prevede il coinvolgimento diretto, drammaturgico e sensoriale di un gruppo limitato a 17 spettatori a replica. La prima parte di questo ciclo, INFERNO, può essere considerata anche come un’opera autonoma ed è per questo che viene proposta da sola e senza limitazione di spettatori.

 Da un punto di vista drammaturgico il lavoro su INFERNO deve intendersi come una libera e personale scrittura scenica che interroga attori e spettatori a partire dal loro stesso statuto e, persino, nella loro comune e inquieta condizione di cittadinanza.
Se da un punto di vista psichico l’Inferno, come è per il teatro, suggerisce uno sprofondamento dell’anima nel regno dei morti, del sogno e dell’inconscio - cioè in un luogo senza tempo - da un punto di vista etico esso ci riporta, invece, a domande basilari sul nostro tempo, sul regno del presente. A questo presente gli spettatori, qui, sono lasciati nella loro condizione quotidiana di muta impotenza.
Ma, d’altra parte, se, come cerchiamo di testimoniare con Inferno, la nostra società è davvero diventata una “società dello spettacolo”, invadendo qualunque espressione sociale, il compito del Teatro, a noi pare, è diventato quello di affermare per sé uno statuto non spettacolare, poiché questa è l’unica via onorevole, forse l’ultima possibile, per giustificare la propria esistenza.
Riportare così il teatro ad una dimensione rituale, da cui pure esso sgorga originariamente, significa affermare oggi la sua funzione e la sua necessità. Da questo punto di vista il teatro – da tempo – dovrebbe essere considerato non più luogo della finzione – che lasciamo volentieri all’infera spettacolarità diffusa – ma come luogo della rivelazione (Theatron, appunto), dovrebbe essere cioè in grado di costituirsi come regno dell’Anti-finzione.
In altre parole: o il Teatro è in grado di proporsi come momento di Verità per una comunità di attori e spettatori considerati nella loro singolarità personale – perché, come ha scritto Gabriel Marcel, “non vi è autentica profondità che quando può realmente effettuarsi una comunicazione umana e una tale comunicazione non può darsi in mezzo alla massa” – o il teatro non ha più alcuna ragione di esistere.

Il lavoro su INFERNO rappresenta la messa in gioco di questa questione, oggi, ineludibile. Il lavoro si costituisce come riflesso della nostra infera condizione quotidiana. E, come uno specchio crudele, questo riflesso si propone di provocare nello spettatore uno shock rivelatore e salutare.
Per gli spettatori si tratta così, nell’attraversamento completo di NEKYIA, di rimettere concretamente in gioco il proprio ruolo e la propria funzione: dalla solitaria passività iniziale (Inferno), alla trasformazione (Purgatorio) in attori di un gioco collettivo (Paradiso). La scommessa per noi oggi è infatti quella di ripensare il Teatro come luogo di un rito collettivo.

LO SPETTACOLO NON PREVEDE LIMITAZIONI DI SPETTATORI


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Spettacoli

 

Rivendichiamo un Teatro di Poesia che sappia comporre le sue rime con i corpi, i colori e gli strumenti del teatro. E il teatro è per noi uno spazio non-teologico in cui le sue diverse componenti, appunto, vanno a fondersi, a sottrarsi moltiplicandosi.

Massimo Munaro

In repertorio

ATTORNO A TROIA_TROIANE

Metamorfosi - Nel labirinto della memoria

Ante lucem

Metamorfosi - Di forme mutate

WS Tempest

Cantami Orfeo

Giulietta e Romeo. Lettere dal mondo liquido

Amleto

Antigone

Nekyia - viaggio per mare di notte

Inferno

La tetralogia
Edipo. Tragedia dei sensi per uno spettatore

Dioniso. Tragedia del Teatro

Amore e Psiche. Una favola per due spettatori

Odisseo. Viaggio nel Teatro

Due postfazioni alla tetralogia
L'odissea dei bambini

A colono. Rito augurale per spettatore solo

 

 

Qui il calendario dei prossimi spettacoli

 

Momo

con Chiara Elisa Rossini, Fiorella Tommasini, Diana Ferrantini, Mario Previato drammaturgia,musiche e regia Massimo Munaro

 

Risplende la tua luce nel buio della via
non so di dove vieni e neppure chi tu sia
sembri così vicina e sei così lontana
non conosco il tuo nome, so solo che sei bella
e dovunque ti trovi e chiunque tu sia
scintilla scintilla piccola stella.

(da un’antica nenia irlandese)

 

Lo spettacolo è liberamente tratto dall’omonimo romanzo di Michael Ende. Momo è una ragazzina che vive tutta sola all’interno di un teatro nella periferia di una città. Gli abitanti del quartiere si prendono cura di Momo e tutti la vanno a trovare. Infatti la bambina ha una specie di dono: Momo è in grado di ascoltare. Gli adulti la cercano per parlare, i bambini per giocare. Ma ben presto accade qualcosa di molto strano, tutti sembrano sempre più indaffarati e non hanno più tempo da dedicargli. In città sono arrivati gli Uomini Grigi che rubano il tempo agli adulti facendo credere loro che esso venga depositato in banche speciali. Di fronte all’invasione degli Uomini Grigi, Momo, con l’aiuto di Mastro Hora, il Maestro del Tempo, e di Cassiopea, una tartaruga molto particolare, salverà se stessa e la città da questa terribile oppressione. Quest’avventura, seppur piena di pericoli, permetterà alla bambina di scoprire i segreti del Tempo. La storia di MOMO è quella di una bambina che, con la forza dell’innocenza e dell’immaginazione, si ribella ai ritmi di vita e alla freddezza della società moderna. Il racconto difende i valori dell’infanzia e rivela l’inconsapevole saggezza dei bambini. Per la piccola MOMO, infatti, la fantasia, il saper ascoltare, il saper dare attenzione alle piccole cose, il prendersi cura, diventano armi vincenti contro la frenesia e il consumismo della società dei “grandi”.

E’ la seconda volta che dedichiamo uno spettacolo al pubblico dell’infanzia. Con L’ODISSEA DEI BAMBINI avevamo pensato ad una sorta di piccola iniziazione al teatro (e alla vita) per il piccolo Odisseo, costruendo per un gruppo di 20 bambini un viaggio sensoriale fra oscurità, magia ed immaginazione. Con MOMO l’avventura si estende ad una comunità molto più numerosa e composita. Si tratta, per me, in particolare, di un omaggio agli attori del Lemming, lanciati in un’avventura per loro del tutto inedita, e, insieme, di un omaggio al Teatro, perché Momo resta prototipo di quella capacità di concretizzare con semplicità ascolto e magia che pure resta l’obbiettivo, spesso inattuato, del teatro.

FRAMMENTI - Concerto scenico dal Lemming

con Chiara Elisa Rossini, Fiorella Tommasini, Diana Ferrantini
musica e regia Massimo Munaro

Abbiamo constatato che all’uscita dei nostri spettacoli, gli spettatori, dato l’elevato grado di coinvolgimento, spesso non riescono a cogliere fino in fondo il filo delle parole, dei suoni, delle musiche. Questo accade perché la poetica che attraversa dagli esordi il lavoro del Lemming è caratterizzata proprio dal tentativo di immergere lo spettatore nel flusso emotivo di un evento in cui la parola non vale più di uno sguardo, di una carezza, di un’immagine, di un profumo. Sottoposto ad una sorta di accecamento, ad un vero e proprio bombardamento sensoriale, lo spettatore si ritrova a vivere un’esperienza fortemente onirica,  con la sensazione, simile a quella del risveglio da un sogno, di avere come perso qualcosa.
Questo lavoro propone invece una sorta di drastica riduzione rispetto alla normale complessità del nostro linguaggio. Ciò consente allo spettatore di potersi concentrare, rispetto alla pienezza vorticosa di una sinestesia sensoriale, sull’unico senso dell’udito. E’ una riduzione che apre però altri varchi, altre vertigini, altri acceccamenti.
D’altra parte questo lavoro propone anche un possibile attraversamento della nostra attività produttiva: una piccola antologia, appunto, di parole e musiche dal Lemming - in realtà una delle tante possibili, in un materiale quasi inesauribile accumulato in venticinque anni di attività e ricerca.
Per chi conosce il nostro lavoro sarà un modo di poter riattraversare suggestioni che riverberano inevitabilmente di altre suggestioni; per chi ci incontra per la prima volta  suggeriamo la possibilità di lasciarsi attraversare da un piccolo incantamento.  
Questi quattordici frammenti disegnano, infatti, un viaggio nella memoria di ciascuno di noi, stanze dell’anima, perle di una collana che affida ad ogni spettatore il compito di ricostruirne il filo.

Nel Simposio Platone riporta un mito affascinante sull’essenza dell’amore, che in qualche modo vale, per noi, anche per l’essenza del teatro.
Egli racconta come gli uomini fossero originariamente degli esseri sferici; ma poi, per punirli della loro tracotanza, gli dei li tagliarono a metà. Da allora ciascun uomo cerca nell’altro il proprio completamento. E proprio questo è l’amore: l’attesa di qualcuno, del frammento che incontrandoci sappia completarci. Così l’esperienza di un’opera d’arte rappresenta solo un frammento di essere, che solo un essere a lui corrispondente può completare in un tutto e portare alla salvezza. Questo essere salvifico è per il teatro lo spettatore partecipante.
FRAMMENTI era, infine, anche il titolo del nostro primo spettacolo realizzato nel lontano 1987, un modo per riaffermare la continuità di una poetica alla quale, seppure declinata in modi sempre diversi, siamo rimasti, a modo nostro, ostinatamente fedeli.
Il nostro lavoro è, a suo modo infatti, come sempre, costruzione di mondo: un tentativo di costruire un ordine a tutto ciò che si frantuma. Sta a chi lo riceve deciderne l’esito. Come la chiave di quell’impossibile soluzione all’enigma che noi siamo a noi stessi.

 

 Leggi un estratto della rassegna stampa

MUSICHE DEL TEMPO 

con Massimo Munaro pianoforte e voce recitante e Laura Bisceglia violoncello e canto
testi di Marcel Proust e Marco Munaro
musica e regia di Massimo Munaro

n.b. lo spettatore deve portare con se una coperta

Il Concerto scenico propone, per la prima volta, un attraversamento delle musiche originali che Massimo Munaro ha composto nel corso degli anni per il Lemming. Queste musiche sono qui eseguite dal vivo, in una nuova versione per pianoforte, violoncello e voce.
Se la musica, così come il teatro, non è che una dinamica del tempo, un modo di scrivere il tempo, queste musiche cercano di esplorare quello spazio che risulta incorruttibile rispetto all’invecchiamento e alla morte. Come sempre accade, però, nei lavori del Lemming non si tratta per gli spettatori semplicemente di assistere ad uno spettacolo, quanto piuttosto di essere completamente immersi all'interno dell'opera. Si tratta di vivere un'esperienza.

Giulietta e Romeo. Lettere dal mondo liquido

con Chiara Elisa Rossini, Diana Ferrantini, Fiorella Tommasini, Alessio Papa.
musica Massimo Munaro
regia Chiara Elisa Rossini e Massimo Munaro

Il mondo liquido di cui parla il sociologo Zygmunt Bauman è il nostro tempo presente, una società sotto assedio in cui tutto sembra precario, provvisorio, mutabile, senza certezze e senza rassicurazioni, dove tutto scorre veloce, su un unico binario, quello della mercificazione.
Dove si colloca il mito di Giulietta e Romeo in questa società in cui, per restare a Bauman, anche l’amore ha perso la sua forza titanica, mitologica, ed è divenuto precario come tutte le cose del mondo?
Chi sono Giulietta e Romeo per noi? Questi due giovani sono davvero così inevitabilmente lontani dalle nostre vite? C’è qualcosa o qualcuno per cui saremmo disposti a sacrificare tutto?
Che cosa saremmo disposti a fare per vivere il nostro amore?

Il processo creativo ha invece invertito l’assunto dal quale spesso siamo partiti per la costruzione dei nostri lavori: se, come ha sostenuto lo psicanalista James Hillman, le nostre vite sono mimetiche del mito, allora forse significa che persino nelle nostre povere vite sono sparsi frammenti del mito. O almeno questo è stato lo spirito che ha guidato la nostra ricerca.
Il nostro spettacolo è formato da lettere, scritte ad un nostro amore, un ipotetico spettatore: brandelli di un tempo presente in cui la dimensione solida, quella del mito, non è ancora andata del tutto perduta e in cui si rintracciano storie di un desiderio contrastato, tracce di una violenza esplicita o nascosta, contrasti insanabili, ma anche la tenacia di un volere che non demorde.
La forma della lettera – così apparentemente desueta in tempi di email o di SMS, eppure a tutti così cara – ci ha aiutato a mantenere un dialogo fitto e fecondo fra il tempo incorruttibile del mito e questo nostro presente che anela ad una trasformazione vitale.
Questo nostro lavoro, infine, si propone come secondo movimento di una trilogia Shakespeariana che il Lemming ha in progetto di completare a breve.

Leggi la rassegna stampa

AMLETO

Con: Fiorella Tommasini, Chiara Elisa Rossini, Diana Ferrantini, Mario Previato, Alessio Papa, Giovanni Refosco, Boris Ventura, Katia Raguso
Musica e regia: Massimo Munaro
Elementi scenici: Luigi Troncon

Spettacolo vincitore  del Silver Snow Flake al Sarajevo Winter Festival 2013

 

“Il tempo è fuori di sesto. O quale dannata sorte essere nato per riconnetterlo!...”

Amleto è l’opera che, più di ogni altra, inaugura la cultura moderna; anzi, per molti aspetti ne costituisce il mito fondante. Come personaggio mitico, Amleto dà vita ad un personaggio scisso, dilaniato, smarrito.
Amleto è scisso fra fede umanista e scetticismo conoscitivo, fra segno e simulacro. È dilaniato, sul piano psicologico, dalla contesa fra il nome del padre e richiamo affettivo della madre, fra passato aureo e presente decadente, fra eros e rifiuto del corpo, fra ragione e follia, fra follia recitata e follia sperimentata direttamente.
Amleto è condannato a vivere in un mondo rovesciato. Ogni valore è stato sostituito da una copia rivoltante. Ogni cosa dotata di senso è stata ridotta a una recita sinistra. Il mondo di Amleto, come il nostro, non solo cospira a desacralizzare tutto ma rende ciò che consideravamo sacro una farsa sempre più abbietta.
In questo mondo paradossale la strategia di Amleto è quella così di giocare a rovesciare ogni paradosso.
In Amleto ritroviamo la nostra solitudine, ancor prima che di spettatori, di cittadini. Se è vero che in una democrazia la regalità dovrebbe appartenere a ciascun cittadino, allora davvero ci sentiamo tutti soli e impotenti come questo triste principe che non conta nulla.
Se Amleto è Principe lo è, come noi, soltanto in quanto erede. Erede di una potenza nobile che ora appare irrimediabilmente corrotta: “C’è del marcio in Danimarca”. Erede di un padre che ha il suo stesso nome, e il cui destino egli è chiamato a compiere. Perché il destino dei figli, come per Amleto, è quello di risolvere quello che i padri hanno lasciato come irrisolto.
La dimensione labirintica del testo, che disarticola ogni linearità narrativa, ci fa sprofondare in un viaggio interiore che è al contempo anche un viaggio nella natura stessa del fenomeno teatrale.
Il nostro gioco polistilistico, che inerisce ciascuna opera della trilogia e le tre declinazioni nel loro insieme, è infatti un omaggio agli infiniti piani e alle inesauribili risonanze che l’Amleto continua ad offrire.
Nella sua natura scopertamente meta teatrale l’Amleto shakespeariano pone al centro il problema del teatro. Un teatro inteso come spettacolo, cioè simulacro, inganno, falsità, ipocrisia. Da questo punto di vista lo “spettacolo” ha ormai completamente invaso, insieme al regno di Danimarca, alla sua corte e ai suoi cortigiani, l’intero nostro mondo contemporaneo: qui la realtà si afferma come tale solo in quanto perpetua finzione.
A questa spettacolarità diffusa Amleto oppone un teatro che sappia smascherare l’inganno, che sappia diventare uno strumento in grado di prendere in trappola la coscienza dello spettatore.
Lo spazio del teatro diventa così lo spazio perturbante in cui i morti tornano a tormentare i vivi e in cui i vivi possono fare pace con essi.
L’ingranaggio di misfatti, di cui soltanto alcuni sono visibili, fa di Amleto quella macchina infernale in cui la lucidità dello spettatore esce turbata come quella di Amleto.

 

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IL ROVESCIO E IL DIRITTO - Parte II

con Alessio Papa, Fiorella Tommasini, Natascia Tommasini, Chiara Elisa Rossini, Diana Ferrantini musica e regia Massimo Munaro

 

Dopo la Tetralogia dedicata al mito greco, che prevedeva il coinvolgimento diretto e sensoriale del singolo spettatore partecipante, e dopo la lunga gestazione di NEKYIA, questo lavoro, è pensato come seconda tappa di un dittico che il nostro gruppo ha realizzato attorno ai  regni che la cultura occidentale designa come i regni dell’oltre-mondo.
Questo Ciclo di drammi didattici prende il titolo di IL ROVESCIO E IL DIRITTO: si tratta qui, per noi, di ripensare l’avventura Dantesca come attraversamento possibile della condizione esistenziale umana.


altarisolgruppoparticolareIL SANGUE DEGLI ALTRI inizia esattamente laddove si concludeva A PORTE CHIUSE.
In quel lavoro la dimensione claustrofobica, senza-vie-di-uscita, finiva, paradossalmente, per rovesciarsi dagli attori agli spettatori nello spazio aperto di un cortile. La finzione teatrale sembrava cedere il posto, improvvisamente, alla realtà concreta della vita.
Da quel finale sospeso riparte qui la storia dei medesimi personaggi, che pure sembrano, rispetto all’ineludibile stasi dell’inferno, essere sottoposti ora ad una lenta, per quanto dolorosa, trasformazione. Una metamorfosi purgatoriale. In effetti, a differenza della dimensione di angosciante incomunicabilità vissuta nella prima parte di questo trittico, qui un dialogo fra i vivi e i morti pare essere possibile.
Le erinni infernali sembrano essersi trasformate in eumenidi. I morti tornano, come Antenati, a interrogarci: essi ci pongono di fronte ad una responsabilità, ci chiedono di realizzare una scelta che finisce per riguardare direttamente la nostra vita. Riescono a strapparci una promessa. I
l tema mitico, di una rivitalizzante discesa dei vivi nel regno dei morti, si incontra qui con il deciso affermarsi di una dimensione storica.

gruppomanialzatequattroNe IL SANGUE DEGLI ALTRI, il cui titolo deve intendersi anche come un omaggio al romanzo e al pensiero di Simone De Beauvoir, lo scenario storico è quello della resistenza europea sul finire della seconda guerra mondiale. Ma i fatti della resistenza non sono per noi da collocare in un passato interamente trascorso: essi si danno al contrario, esattamente come il mito, come sempre attuale possibilità dell’esistere.
La Resistenza si offre così come metafora perfetta – purgatoriale – della lotta per la conquista di una felicità possibile.

La struttura formale, il passaggio continuo di stanza in stanza, rievoca e capovolge l’andamento del precedente lavoro. Alla lacerata frammentazione dell’identità individuale, che caratterizzava A PORTE CHIUSE qui la centralità è assunta dal flusso di una ritrovata identità collettiva.
Alla scena, quasi interamente femminile, si contrappone un’unica figura maschile, che da oppositiva finisce per definirsi come una alterità che evoca la possibilità di una congiunzione.
Il nero, tonalità dominante del precedente lavoro, cede il posto al bianco.
Come sempre nei nostri lavori si richiede agli spettatori una partecipazione diretta, una assunzione di responsabilità. Rispetto al passato però gli spettatori si ritrovano ad essere partecipi consapevoli di un piccolo fatto collettivo. Da cui, per noi, oggi la possibilità di pensare al Rovescio e il Diritto come ad un ciclo di drammi didattici.

A porte chiuse

IL ROVESCIO E IL DIRITTO - Parte I

 

con Alessio Papa, Chiara Elisa Rossini, Diana Ferrantini, Fiorella Tommasini, Natascia Tommasini, Massimo Munaro

musica e regia Massimo Munaro

Dopo la Tetralogia dedicata al mito greco, che prevedeva il coinvolgimento diretto e sensoriale del singolo spettatore partecipante, e dopo la lunga gestazione di NEKYIA - Inferno Purgatorio Paradiso, questo nuovo lavoro può essere pensato come prima tappa di un dittico che il nostro gruppo intende realizzare attorno alle Cantiche Dantesche.
Prendendo come riferimento il pensiero esistenzialista francese si tratta qui, infatti, di ripensare l’avventura Dantesca come attraversamento possibile della condizione esistenziale umana.

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Questo lavoro prende come oggetto d’indagine, in modo piuttosto inedito per noi, un testo teatrale: Huis Clos - PORTA CHIUSA di Jean Paul Sartre.
Pur volendo restare assolutamente fedeli allo spirito del testo e del pensiero sartiano, questo lavoro, per così dire, ne reinventa la lettera.
I tre personaggi Sartriani, un uomo e due donne, (Giuseppe Garsino, Ines Serrano, Stella Rigolti – che qui affermano l’appartenenza geografica e linguistica alle nostre terre) sono nel nostro lavoro letteralmente esplosi in una duplicità di presenze.

L’identità di ciascuno appare così, palesemente, attraverso queste molteplicità di piani, nella propria autentica complessità.

All’ambientazione a scena fissa che Sartre immagina Secondo Impero, segue qui invece un succedersi, per gli attori e gli spettatori, di quattro ambienti diversi: la sala teatrale, una cucina, una piccolissima camera da letto, lo spazio aperto del teatro davanti ad una strada – a palesare lo sprofondare, nella ripetizione, sempre più in una dimensione infera e soffocante che è esattamente pari a quella delle nostre vite.

Lo spettatore, l’Altro per antonomasia, è drammaturgicamente pensato nel suo essere vivo in questo spazio di morti. Egli è un invisibile visitatore. La sua presenza finisce però per essere sempre più gravida di responsabilità.
Come sempre il Teatro suggerisce questa possibilità impossibile di incontro e di relazione, proponendo, qui in modo sottile ed ambiguo, una elementare ed implacabile reversibilità dei ruoli. Il cerchio, per una volta, non si chiude e il teatro sembra voler proiettarsi direttamente nella vita degli spettatori coinvolti.
Ma, infine, se “l’Inferno sono gli Altri”, gli Altri appaiono, Sartrianamente, anche l’unica via di accesso ad un qualunque possibile immaginato paradiso.

dan 7NEKYIA

viaggio per mare di notte

Parte I: INFERNO

con Alessio Papa, Diana Ferrantini, Chiara Elisa Rossini, Fiorella Tommasini, Katia Raguso
musiche e regia Massimo Munaro

a Roberto Domeneghetti
Questo lavoro costituisce la prima parte di NEKYIA, che in greco significa viaggio per mare di notte o discesa agli inferi. Il ciclo suggerisce la possibilità di un ripensamento radicale dei tre regni che la nostra cultura occidentale designa come i regni dell’oltre-mondo: Inferno – Purgatorio – Paradiso rappresentano anche oggi, infatti, innanzi tutto un patrimonio comune e insostituibile del nostro universo simbolico. Il ciclo prevede il coinvolgimento diretto, drammaturgico e sensoriale di un gruppo limitato a 17 spettatori a replica. La prima parte di questo ciclo, INFERNO, può essere considerata anche come un’opera autonoma ed è per questo che viene proposta da sola e senza limitazione di spettatori.
Da un punto di vista drammaturgico il lavoro su INFERNO deve intendersi come una libera e personale scrittura scenica che interroga attori e spettatori a partire dal loro stesso statuto e, persino, nella loro comune e inquieta condizione di cittadinanza.
Se da un punto di vista psichico l’Inferno, come è per il teatro, suggerisce uno sprofondamento dell’anima nel regno dei morti, del sogno e dell’inconscio - cioè in un luogo senza tempo - da un punto di vista etico esso ci riporta, invece, a domande basilari sul nostro tempo, sul regno del presente. A questo presente gli spettatori, qui, sono lasciati nella loro condizione quotidiana di muta impotenza.
Ma, d’altra parte, se, come cerchiamo di testimoniare con Inferno, la nostra società è davvero diventata una “società dello spettacolo”, invadendo qualunque espressione sociale, il compito del Teatro, a noi pare, è diventato quello di affermare per sé uno statuto non spettacolare, poiché questa è l’unica via onorevole, forse l’ultima possibile, per giustificare la propria esistenza.
Riportare così il teatro ad una dimensione rituale, da cui pure esso sgorga originariamente, significa affermare oggi la sua funzione e la sua necessità. Da questo punto di vista il teatro – da tempo – dovrebbe essere considerato non più luogo della finzione – che lasciamo volentieri all’infera spettacolarità diffusa – ma come luogo della rivelazione (Theatron, appunto), dovrebbe essere cioè in grado di costituirsi come regno dell’Anti-finzione.
In altre parole: o il Teatro è in grado di proporsi come momento di Verità per una comunità di attori e spettatori considerati nella loro singolarità personale – perché, come ha scritto Gabriel Marcel, “non vi è autentica profondità che quando può realmente effettuarsi una comunicazione umana e una tale comunicazione non può darsi in mezzo alla massa” – o il teatro non ha più alcuna ragione di esistere.
Il lavoro su INFERNO rappresenta la messa in gioco di questa questione, oggi, ineludibile. Il lavoro si costituisce come riflesso della nostra infera condizione quotidiana. E, come uno specchio crudele, questo riflesso si propone di provocare nello spettatore uno shock rivelatore e salutare.
Per gli spettatori si tratta così, nell’attraversamento completo di NEKYIA, di rimettere concretamente in gioco il proprio ruolo e la propria funzione: dalla solitaria passività iniziale (Inferno), alla trasformazione (Purgatorio) in attori di un gioco collettivo (Paradiso). La scommessa per noi oggi è infatti quella di ripensare il Teatro come luogo di un rito collettivo.

LO SPETTACOLO NON PREVEDE LIMITAZIONI DI SPETTATORI

 


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 "Provate a immaginare l’Inferno di Dante. Provate e verrete travolti da una miriade di immagini raccapriccianti. Lo stesso  percorso ha seguito il Teatro del Lemming per “Inferno, Nekyia parte I” che ha messo insieme uno spettacolo di indiscutibile e profonda bellezza. Massimo Munaro e la sua compagnia è sceso agli inferi, aggrappandosi a video, barre da ospedale, cappi, ferite che sottolineano la ritualità, e nello stesso tempo, la funzione di un teatro sociale senza belletti. Il pubblico è impotente, ma è costretto ad interrogarsi. Bellissimo" Silvia Tesauro - Giornale di Sicilia, 9 Febbraio 2007

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"Cessano le peculiarità individuali, il piombo risuona oscuro nell'anima di ogni spettatore in un teatro che non è rappresentazione. Al termine, si è espulsi dall'inferno allo stesso modo in cui si è entrati, e s'immaginano - o si sperano - gli altri passaggi verso la trasmutazione. Uno spettacolo unico..." Claudio Elli - Leonardo / PuntoLinea, 7 Febbraio 2007

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NEKYIA - viaggio per mare di notte

INFERNO PURGATORIO PARADISO

con Diana Ferrantini, Chiara Elisa Rossini, Fiorella Tommasini, Alessio Papa, Katia Raguso, Massimo Munaro
drammaturgia, musica e regia Massimo Munaro

a Roberto Domeneghetti

 

 Dopo una lunga serie di studi preparatori questo lavoro conclude la nostra ricerca, durata quattro anni, sulla Divina Commedia.
Il lavoro drammaturgico che qui abbiamo operato è diretto alla sintesi, nel tentativo, al di là della lettera e della struttura del testo, di restituire, con un gesto estremo e purificato, la complessità di un percorso che abbraccia in Dante una riflessione sulla condizione psicologica, politica e morale dell’uomo e del mondo in cui vive.
Il viaggio di Dante è un viaggio nell’al di là del mondo e insieme è un viaggio alla ricerca del senso ultimo del nostro esserci nel mondo. Dante attraversa la sua anima individuale nello specchio dell’anima universale del mondo e incontra l’anima universale nel riflesso della sua propria anima. Occorre così pensare a Dante come cittadino di una polis, e alla sua Nèkyia, (in greco viaggio per mare di notte o discesa agli inferi), a differenza di quella compiuta da Odisseo o da Orfeo, come a un tentativo di rifondazione di una comunità. Da qui la scelta di affidare ad un piccolo gruppo di spettatori (in questa caso diciassette) l’identità e il ruolo del protagonista.
Proporre a questo piccolo gruppo di spettatori una Nekyia sulle orme del viaggio dantesco, significa per noi riformulare il linguaggio del teatro in favore della sua essenza di rito radicale e trasformativo. Un rito che sappia interrogare lo statuto teatrale fino a rimettere in gioco i suoi poli fondanti: gli attori e gli spettatori. La loro relazione è qui ripensata, rispetto alla nostra precedente Tetralogia, dove il coinvolgimento era pensato per ogni singolo spettatore partecipante, in favore del corpo di una, seppure piccola, comunità.

L’Inferno di Dante è un luogo archetipico. Se da un punto di vista psichico l’Inferno, come è per il teatro, suggerisce uno sprofondamento dell’anima nel regno dei morti, del sogno e dell’inconscio - cioè in un luogo senza tempo - da un punto di vista etico esso ci riporta, invece, a domande basilari sul nostro tempo, sul regno del presente. A questo presente gli spettatori sono lasciati nella loro condizione quotidiana di muta impotenza.
Nel Purgatorio continuano ad avere stanza tutti gli affetti tipici della condizione umana: la paura, la speranza, il rammarico per quel che, in vita, si poteva dire o fare e che resta non detto o non fatto. Certamente si tratta di una dimora provvisoria, di un «paese di transito». In Dante l’accento cade sulla sua funzione di trasformazione di cui proprio la condizione penitente offre la chiave. Per i viventi il Purgatorio è il luogo in cui potersi riconciliare con i propri morti attraverso la preghiera e la memoria. Nel nostro lavoro, dopo una vestizione rituale, tutto assume l’andamento di una cerimonia sacra. Il maestro che ci accoglie, ci inizia progressivamente alla preparazione di un viaggio che si svela, dietro la porta buia, come niente affatto rassicurante quanto necessario.
Ci si immagina il Paradiso dantesco come qualcosa di statico, di lietamente sereno o come il luogo della grazia imperturbabile. Ma al contrario esso si da come il luogo del perturbante estremo. Perché è proprio questa grazia che ci coglie, come Dante, del tutto impreparati e che ci strugge fino allo sfinimento. Ciò che ci perturba è questa divinità vivente che è della terra, degli occhi, delle mani, delle orecchie, della pelle, di tutti i nostri sensi esplosi.
Per gli spettatori si tratta così, durante questa esperienza, di rimettere concretamente in gioco il proprio ruolo e la propria funzione: dalla solitaria passività iniziale (Inferno), alla trasformazione (Purgatorio) in attori di un gioco collettivo (Paradiso).
La scommessa per noi oggi è infatti quella di ripensare il Teatro come luogo di un rito collettivo.

Questo nostro lavoro, infine, è dedicato a Roberto. Non solo perché questo progetto – come sempre – è stato discusso fra noi fino alle ultime ore della sua vita, fra mille parole, mille paure, mille entusiasmi; non solo perché senza di lui – senza il suo esempio, il suo sostegno, il suo lavoro, le sue idee – questo progetto probabilmente non sarebbe nemmeno mai stato immaginato; ma anche nella speranza che fra le tante immagini e Visioni di cui si nutre questa opera, si nasconda fra le sue pieghe e in qualche modo riverberi il sorriso del suo Volto.

 

>> IL TEATRO COME NEKYIA

 

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 L'ODISSEA DEI BAMBINI
Viaggio nel teatro per venti bambini di tutte le età

con:  Marina Carluccio, Diana Ferrantini, Fiorella Tommasini, Alessio Papa
musiche e regia: Massimo Munaro 

 

Dopo A COLONO – rito augurale per spettatore solo, omaggio esoterico e misterico dedicato al solo spettatore della Tetralogia, L’ODISSEA DEI BAMBINI rivolge la sua attenzione allo spettatore-bambino del presente, naturalmente, ma anche al bambino-spettatore del futuro.
Al lavoro, come smpre, è dedicato un sottotitolo - viaggio nel teatro per venti bambini di tutte le età - a sottolineare che l’Infanzia non è tanto, o solo, una questione anagrafica quanto un territorio dell’anima, segnata, come lo è per Odisseo, per la ostinata capacità di essere curiosi, la voglia e la paura di attraversare col proprio corpo il mondo, il desiderio che seduce, la nostalgia di casa, l’arte di ingegnarsi sempre a risolversi e a reinventarsi la propria vita – senza requie.
Si può avere 70 anni e avere conservato la curiosità del mondo e averne 7 e restare murati per sempre dentro la fortezza di Troia. L’infanzia non è una questione di anni.
Il mio Odisseo è un bambino di otto anni che entra qui dentro con altri bambini che forse conosce e forse no, ma con i quali fraternizza da subito e che aiuta a superare le tante prove di questo percorso che lo trova alla fine diverso eppure uguale. Si è forse poco riflettuto su come l’ODISSEA (a cui abbiamo dedicato il lavoro conclusivo della nostra Tetralogia e da cui scaturisce questa appendice) possa essere considerata la fonte diretta delle favole che hanno attraversato la nostra cultura occidentale, oltre che l’infanzia di tutti: un modello generativo inesauribile e, se si effettuassero delle comparazioni, impressionante.
In ogni caso mentre mamma-ATENA ci guida e ci protegge nel nostro viaggio, un’altra attrice si fa figura di tre opposti volti di donna: CALIPSO – la donna che ci lega col suo amore e coi suoi ricatti; CIRCE – la donna che ci nutre per divorarci; PENELOPE – la donna che ci ama fedele senza chiederci niente in cambio e a cui si anela tornare.
Tre volti della medesima figura archetipa, quella della Grande Madre, con la quale Odisseo sembra lottare per tutto il viaggio: per una volta però questa lotta si risolve senza morti, finalmente senza l’uccisione del drago: Odisseo fa pace con ciascuno di questi aspetti. Questo approdo sereno passa per la fuga e la sfida contro l’Orco cattivo, il CICLOPE, per la morbida stanza delle stelle di EOLO e per la dolcezza della fanciulla NAUSICAA: una principessa… o forse una sorella che gioca con noi sotto il lenzuolo.
Per  il mio bambino di otto anni si tratta di un viaggio iniziatico alla scoperta del Teatro e forse di una piccola anticipazione – oracolo gentile - dell’intero percorso che segnerà  la sua vita futura.

 

 

 

 

A COLONO
rito augurale per spettatore solo

con: Maria Grazia Bardascino, Boris Ventura, Alessio Papa, Chiara Elisa Rossini, Fiorella Tommasini, Diana Ferrantini
collaborazione drammaturgica: Roberto Domeneghetti
musica e regia: Massimo Munaro

Rispetto al rumore del mondo una possibilità resta il silenzio.

 

Dopo la tetralogia sul mito e lo spettatore, iniziata con EDIPO e continuata con DIONISO E PENTEO, AMORE E PSICHE e ODISSEO, A COLONO si configura come una  postilla, un piccolo cameo da aggiungere e da vivere come una sorta di appendice purificatrice. A COLONO si propone allo spettatore della tetralogia, e solo a lui è di fatto dedicato, come atto catartico e definitivamente liberatore da quella colpa che, in qualche misura, aveva caratterizzato, tematicamente, il percorso fino a qui  messo in essere.

Da EDIPO ad EDIPO, quindi.

 

 

 

 

 

ODISSEO
Viaggio nel teatro

con: Chiara Elisa Rossini, Diana Ferrantini, Alessio Papa, Fiorella Tommasini, Katia Raguso, Boris Ventura, Marina Carluccio, Silvia Massicci.
costumi: Genny
collaborazione drammaturgica: Roberto Domeneghetti
musiche e regìa: Massimo Munaro

 in fondo il migliore modo di viaggiare è sentire
sentire tutto in tutti i modi


Si dimentica spesso che questa grande epopea che fonda la nostra cultura e la nostra coscienza collettiva, inizia e finisce con una strage: quella dei troiani - quella dei proci; e ci ricorda che nella nostra storia personale e collettiva non passa un solo giorno che da qualche parte nel mondo non si combatta una guerra, e che di questa ciascuno di noi è in qualche modo responsabile. Il corpo di Odisseo è stato, come il nostro, ferito. Ma la sua ferita si è fatta cicatrice.
Dopo EDIPO, DIONISO e AMORE E PSICHE, il lavoro su ODISSEO si propone come ultima tappa di un progetto che si configura propriamente come una tetralogia sul mito e sullo spettatore.
In questo spettacolo la relazione diretta attori e spettatori è portata, dopo che i lavori precedenti presupponevano la partecipazione di un numero ristretto di spettatori, ad una partecipazione più vasta che rimanda contemporaneamente anche ad una identità, quella di Odisseo che, così come quella dello spettatore teatrale, non può che darsi come molteplice e multiforme.
Il viaggio di Odisseo è un viaggio circolare che presuppone una partenza ed un ritorno: da Itaca a Itaca. Questo viaggio possiede di fatto, piuttosto che uno svolgimento lineare, un andamento sincronico: tutto accade sempre contemporaneamente. Come in un sogno. Nel Mare come nel Teatro non esiste un centro. E il Mare, come il Teatro, non lascia tracce. Ma il Teatro è forse l'unico luogo al mondo in cui - come per Odisseo il Mare - ciascuno di noi può reincontrare i propri fantasmi e riconquistare così la sua Itaca. Metafora di un teatro che può essere non solo subito ma anche attraversato compiutamente e a cui tornare diversi eppure uguali.

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Amore e Psiche
una favola per due spettatori

con Diana Ferrantini, Alessio Papa, Fiorella Tommasini e Chiara Elisa Rossini
musica e regia Massimo Munaro

  

Da qualche tempo il nostro gruppo ha intrapreso una inedita ricerca teatrale che si caratterizza per il coinvolgimento drammaturgico e sensoriale degli spettatori. Questa indagine da una parte si pone come riflessione sullo stesso statuto di teatralità, la cui origine di evento sacrale, che ne fonda la necessità, ricolloca al centro la possibile ridefinizione della relazione attori-spettatori.Questa ricerca d'altra parte si pone, contemporaneamente, anche come indagine sui profondi movimenti archetipici che le figure mitiche, sempre oggetto dei nostri ultimi lavori, inevitabilmente suscitano in coloro che le frequentano. La nostra vita sembra sempre seguire figure mitiche.
Noi agiamo, vediamo, pensiamo, sentiamo soltanto come ci è consentito dai modelli primari costituiti nel mondo immaginale: la nostra vita psicologica è mimetica dei miti.
Da questo punto di vista ogni nostro lavoro teatrale propone per attori e spettatori la possibilità di un incontro profondo e radicale con alcune, esemplari, figure mitiche.
Il coinvolgimento sensoriale è lo strumento principale della nostra ricerca. I sensi/il senso del corpo. Corpo non più inteso come protesi di un'intelligenza che dovrebbe guidarlo, ma nella sua pienezza animistica, in quella nudità sorprendente che conduce alla nudità di sé e, forse, alla verità dell'incontro con altre anime e corpi.
Il teatro torna e si impone così come il luogo dell'incontro, della relazione, e si propone nella sua necessità di evento, di esperienza che prima che cognitiva resta propriamente esistenziale ed organica.

Il lavoro su AMORE E PSICHE prosegue quindi sulla strada aperta dai nostri precedenti lavori dedicati alle figure di EDIPO e DIONISO e si propone come ideale continuazione. In DIONISO, ad esempio, il rapporto attori-spettatori si faceva mimetico di quei rapporti esperiti sempre più spesso nelle relazioni col mondo che si stabiliscono appunto sotto il segno dell'opposizione e del non riconoscimento.
In AMORE E PSICHE il movimento suggerito è esattamente di segno opposto. Qui la seduzione è agita per amore e conduce, finalmente, ad una congiunzione: congiunzione di anima e corpo, dell'io con l'altro, di attore e spettatore. Dalla dualità si giunge così alla condivisione, alla fusione-con l'altro.
Il mito ci dice per altro che questa unione è tutt'altro che facile. Le vicissitudini di Psiche sono terribili e a volte paiono poterla devastare completamente: ma non sono che il cammino necessario alla sua unione finale con Amore. Il mondo piuttosto che come vana valle di lacrime, appare così, per dirla con Keats, "la valle del fare anima". Al termine del loro peregrinare a tratti pauroso e doloroso, i due spettatori si riuniranno agli attori e insieme si rincontreranno fra loro. L'unione sul piano simbolico prevede così una sorta di moltiplicazione di piani: riunione dello spettatore con se stesso, con l'attore, con l'altro spettatore, con lo spazio e il mondo che li ospita. Poiché, per citare Jung, "l'anima non può esistere senza la sua altra parte, che si trova sempre in un TU".

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DIONISO E PENTEO
Tragedia del Teatro

con Elisa Rocco, Veronica Di Bussolo, Cosimo Munaro, Diana Ferrantini, Katia Raguso, Fiorella Tommasini, Marina Carluccio, Silvia Massicci, Elena Fioretti.
elementi scenici Ulrico Schettini e Martino Ferrari
aiuto regia Roberto Domeneghetti
musica e regia Massimo Munaro

 

Forse non è un caso che "Le Baccanti" di Euripide si configuri come l'ultima delle grandi tragedie che ci sono rimaste. Per certi aspetti essa si pone come fine di un genere, e più in generale di un pensiero (quello tragico appunto), ma anche come inizio di quella diversa visione del mondo che sta alla base della tradizione che conduce fino ad oggi e a quel che rimane del teatro moderno. Implicitamente, mettendo in scena come protagonista lo stesso dio del teatro - Dioniso, essa si pone come riflessione sullo stesso statuto di teatralità, sulla sua crisi, sulla sua impossibilità.

Il teatro, sotto il segno di Dioniso, si configurava essenzialmente come una relazione fondata sulla reciprocità ("io ti vedo mentre tu mi vedi"), come rito collettivo il cui skopòs era quello di giungere ad una comunione-dispersione delle soggettività, a favore di una osmosi col divino, col tutto.
Questa relazione si dà invece come impossibilità ne "Le Baccanti". La relazione è qui oppositiva, lo sguardo si fa distaccato, voyeuristico e ciò rende impossibile ogni reciprocità, ogni tensione ad una reale unione. Le tensioni si polarizzano senza dar luogo a nessuna congiunzione. Agave e Penteo sono madre e figlio. Accomunati dalla stessa hybris che infondo consiste nel non riconoscimento del proprio lato numinoso (Dioniso era un loro stretto consanguineo).
Fra l'isteria della menade Agave che giunge a non riconoscere il figlio e a sbranarlo, e il presunto bisogno di ordine razionale di Penteo che giunge a desiderare di vedere senza essere visto (prototipo dello spettatore moderno) quelle che per lui sono solo agognate sconcezze erotiche, c'è una uguaglianza di segni: entrambi sono strumenti inconsapevoli della vendetta del dio.

Pensare a uno spettacolo su "Le Baccanti" significa ridurre il dionisiaco soltanto al lato oscuramente irrisolto della sua natura. DIONISO e PENTEO non può essere così uno spettacolo compiutamente e felicemente dionisiaco, perché qui esso potrà manifestarsi soltanto come vendetta. Vendetta contro attori e spettatori, polarizzati in uno statuto che, per quanto potrà apparire abolito, verrà riaffermato proprio mentre sembrerà capovolgersi.
Si aboliscano le barriere solo per ripristinarle con più forza, i confini che sembrano dissolti sono sempre stati lì - era solo la nostra vista ad essersi offuscata.
La distorsione relazionale - che qui porta al suo dissolvimento completo - nasce dal rifiuto di riconoscere l'altro in noi, dal rifiuto e dalla negazione dei nostri istinti e desideri profondi che tornano a sbranarci non appena rifiutiamo di riconoscerli come tali.
In questo senso, il rapporto attori-spettatori si fa mimetico di rapporti esperiti sempre più spesso nelle relazioni col mondo che si stabiliscono appunto sotto il segno dell'opposizione e del non riconoscimento.

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EDIPO
Tragedia dei Sensi per uno spettatore

con Alessio Papa, Marina Carluccio, Diana Ferrantini, Fiorella Tommasini.
musica e regia Massimo Munaro

 

In un'epoca di pensieri deboli e di fragili idee sul teatro, questo lavoro implicita la necessità di un ritorno al senso originario e profondo dell'esperienza teatrale.
Il teatro, al contrario di quanto comunemente si pensa e si pratica, non nasce come mera rappresentazione ma è, prima di tutto, accadimento: l'evento, cioé, condiviso da almeno un attore ed uno spettatore, in uno spazio e in un tempo comune.
Se per i greci Dioniso era il dio del teatro, lo era per la sua capacità di instaurare, attraverso il teatro, il regno della con-fusione fra realtà e illusione. Da qui il noto paradosso che vede la tragedia operare «un inganno per cui chi inganna è più giusto di chi non inganna e chi è ingannato è più sapiente di chi non è ingannato» (Gorgia, B 23 DK).
Ma oggi, oramai, il gioco rappresentativo, esautorato di ogni stupore, ci appare come una mera finzione che non "inganna" più nessuno. Seduti comodamente sulle nostre poltrone, abbiamo imparato ad addomesticare ogni immaginazione. Questa distanza, questa assoluta passività in cui ci troviamo relegati quando andiamo a teatro, mima una più temibile passività che è quella delle nostre vite. Ha scritto recentemente su "La Repubblica" Umberto Galimberti: «Istituendoci come spettatori e non come partecipi di un'esperienza o attori di un evento, i media ci consegnano quei messaggi che, per diversi che siano gli scopi a cui tendono, veicolano eventi che hanno in comune il fatto che non vi prendiamo parte, ma ne consumiamo soltanto le immagini». A questa condizione il teatro può, e per noi deve, contrapporre il segno della sua differenza, della sua specificità che è quella, appunto, della condivisione di un'esperienza. Nel viaggio che proponiamo allo spettatore in questo lavoro, sono comprese tutte le tappe e i temi sottesi al mito. Edipo che ricerca la sua vera identità e che poi, come ognuno di noi, si scopre diverso da quello che crede. Edipo che prova ad affermare la propria libertà, ma ogni suo gesto lo danna, e si scopre nelle mani del destino, del caso, delle necessità. Edipo e l'incesto: il dissidio verso gli ambivalenti desideri primari.

Nel gioco drammaturgico che noi operiamo sarà però lo spettatore ad assumere il ruolo del protagonista. «Il rapporto del filosofo con l'essere» ha detto Maurice Merlau-Ponty nella lezione inaugurale al Collége de France nel 1953 «non è il rapporto frontale che ha lo spettatore con lo spettacolo, ma è una sorta di complicità, una relazione obliqua e clandestina. [...] Se la filosofia è scoprire il senso primo dell'essere, non si filosofa, dunque, abbandonando la condizione umana: è necessario invece immergervisi. Il sapere assoluto del filosofo è la percezione».
E' così il CORPO. Non soltanto il corpo esibito, frustrato, dilaniato o giocoso di un attore, e cioè di un altro. Qui è il mio stesso corpo ad entrare in gioco. La crudeltà, (povero innominabile Artaud e - ahinoi ! - troppo vanamente nominato) è spinta qui, finalmente, in direzione dello spettatore.
Al contrario delle protesi tecnologiche sempre più esibite sull'altare di un'epoca disumanizzata, qui è il semplice nudo e organico incontro dei corpi - sta qui lo scandalo ? - a sancire la verità irriducibile della persona umana.
Edipo è un archetipo e ogni archetipo è un Universale Singolare. E' cioè, qualcosa più grande di noi, che ci precede e che continuerà ad esistere anche dopo di noi, ma che allo stesso tempo si dà per ognuno in maniera irriducibilmente singolare. Ogni soggettività che incontra lo spettacolo sancisce così anche, e qui davvero, l'irrepetibilità dell'evento.
Lo spettatore, in questo lavoro, è personalmente chiamato a rivivere l'esperienza di Edipo, cosicchè le lacerazioni del protagonista diventano le sue. Come Edipo egli è il solo a viverle ed è cieco di fronte ad esse in un viaggio che lo vede claudicare, appena sostenuto da vaghe presenze che evocano e provocano continuamente il suo immaginario.
Oscar Wilde diceva che il teatro è uno specchio tenuto davanti alla natura. Qui, come novelli Alice, gli spettatori sono finalmente invitati ad attraversarlo.

Massimo Munaro.

Leggi:  un estratto della rassegna stampa

               L'attore come presenza, un saggio di Carlo Serra sullo spettacolo.

ANTIGONE

con Fiorella Tommasini, Chiara Elisa Rossini, Diana Ferrantini, Katia Raguso, Mario Previato, Alessio Papa, Massimo Munaro
drammaturgia, musica e regia Massimo Munaro

produzione Teatro del Lemming, La Biennale di Venezia

 

Creonte, reggente della città, ha ordinato di non dare sepoltura ai traditori di Tebe, tra questi uno dei fratelli di Antigone: Polinice. La giovane non può accettare una simile violazione del diritto naturale. Così di notte, trasgredendo la legge, seppellisce il corpo del fratello. Alla fine viene scoperta e condotta di fronte allo zio Creonte. Antigone non solo non si piega al volere di Creonte che invoca la legge, ma proclama ad alta voce il diritto alla disobbedienza quando la legge va contro i diritti inviolabili dell'essere vivente. E’ così condannata ad essere sepolta viva, nonostante le proteste del figlio, Emone, fidanzato della fanciulla. La volontà di Creonte finisce così per affermarsi, ma la morte di Antigone è contestuale alla terribile sventura che si abbatte su Creonte e sul suo potere.

Antigone (Ἀντιγόνη) appartiene al ciclo di drammi tebani ispirati alla saga dei Labdacidi, insieme all'Edipo Re e a Edipo a Colono, che descrivono la drammatica sorte di Edipo, re di Tebe, e dei suoi discendenti. Nell'economia drammaturgica del ciclo, Antigone è l'ultimo atto, anche se è stata scritta da Sofocle prima delle altre tragedie.
Il nucleo della Tragedia risiede nello scontro fra due volontà e due concezioni diverse del mondo: quella di Antigone, fanciulla fragile fisicamente ma fortissima moralmente, di rispettare le leggi non scritte della natura (phùsis) e quella di Creonte tesa a imporre la forza dello Stato e della legge (nomos) . Due ragioni si scontrano, si oppongono senza trovare alcuna mediazione possibile, entrambe sono portate all’eccesso e alla catastrofe.
Intorno alla sorte della giovane eroina greca questo nostro lavoro si costituisce drammaturgicamente come un processo, in cui il pubblico, diviso all’inizio in due opposte fazioni, è direttamente chiamato in causa in qualità di testimone, accusatore e accusato.
Con la nostra precedente Tetralogia dello spettatore abbiamo cercato di investigare la condizione dello spettatore/cittadino (al singolare), oggi ci interessa allargare lo sguardo alla comunità, cioè alla natura e alla condizione del nostro vivere sociale. Dopo NEKYIA (parallela al dittico IL ROVESCIO E IL DIRITTO) questo nuovo progetto rappresenta un ulteriore passo in questa direzione.
La tragedia getta così luce sul paradosso di una sostanza etica lacerata in se stessa. Antigone vede infatti nella prospettiva unilaterale assunta da Creonte la negazione del diritto autentico. E, tuttavia, alla fine, è proprio il diritto divino esibito da Antigone a condurre alla catastrofe. Lo stesso contraccolpo divide dall'interno Creonte, che riconosce, alla fine, ma è ormai troppo tardi, il valore dell'ethos di Antigone, che la ragione diurna non può esaurire né spiegare.
Questo significa che natura e cultura - vale a dire: l'universale e il singolare, il sensibile e l'intelligibile - sono distinti e opposti solo nella superficie della collisione drammatica, perché, nella profondità della loro essenza, i termini contrari non sono l'uno fuori dell'altro, ma ogni termine conserva e contiene in sé il suo opposto.

 
Il debutto dell’Opera è avvenuto alla Biennale Teatro di Venezia nel marzo 2009.
 

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